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Alle cose stesse. Un contributo del pensiero di Martin Heidegger alla meta-teoria dell’Io-soggetto di Paolo Milanesi

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SOMMARIO. – L’Autore sostiene che nel corso dell’analisi lo psicoanalista ricerchi

implicitamente (seguendo teorie implicite) l’essere del paziente e ci. sarebbe auspicabile ma,

seguendo il pensiero di Heidegger, lo ritiene anche difficile o forse impossibile a causa di un

oblio dell’essere operato attraverso i secoli dalla metafisica tradizionale fondata sul pensiero

cartesiano. Quindi espone, in estrema sintesi, parte del pensiero del filosofo e ipotizza di

portare l’ontologia Heideggeriana all’interno della stanza d’analisi. Attraverso l’apertura del

proprio essere l’uomo ‘esiste’ e l’esistenza indica unicamente l’ex-sistere della vita umana, il

suo carattere ‘estatico’ nel senso del suo ‘stare fuori’ ed essere esposta a ‘possibilità’, al suo

‘non ancora’, che esige di essere ‘progettato’ e deciso. L’Autore propone un parallelismo con

alcuni concetti della meta-teoria dell’Io-soggetto di michele minolli e accenna anche ad una

rivisitazione del concetto di investimento inteso come significazione ed espressione d’essere;

infine, si chiede se nel processo analitico la coppia paziente e analista possa divenire in

contatto con il reciproco ‘essere’ o se ci. sia invece pura utopia.

Parole chiave: Esserci; possibilità d’essere; apertura; progetto; metafisica.

 

Introduzione

Cosa accade nella stanza d’analisi? Cosa cerchiamo in quanto analisti?

Potremmo semplicemente dire che cerchiamo il paziente o meglio cerchiamo

di capire chi ‘sia’ il paziente.

Chi ‘è’ il paziente?

Penso che ogni analista cerchi di rispondere fondamentalmente a questa

domanda.

In altri termini potremmo dire che cerchiamo ‘l’essere’ del paziente e in

ultima istanza tendiamo a che il paziente entri in contatto con il proprio

essere ed è verosimile che perseguiamo ci. in modo implicito, attraverso

teorie implicite.

 

Teorie implicite

Quali sono queste teorie? Innanzitutto, è necessario dire che sono teorie

storicamente situate (la Weltanschauung); inoltre, seguendo le indicazioni

della Professoressa Claudia Baracchi (2020) è utile risalire all’etimo della

parola teoria, dal greco theoria (ϑεωρία), composta da thea (spettacolo) e

horan (guardare); ponendo particolare enfasi al ‘guardare’ come esito dell’azione

di un organo di senso che radica la teoria nel sensoriale. Anche in

senso immaginativo, ‘guardare’ come ‘toccare’; toccare come incontro di

sguardi e quindi di luci: la luce interiore dell’occhio umano incontra e tocca

la luce del mondo, da cui lo ‘sguardo’ filosofico. Dunque, la contrapposizione

teoria/pratica viene ribaltata e risignificata: la prassi e l’esperienza

sensoriale precedono la teoria che da esse deriva e non il contrario.

È a questo significato di teoria che riferisco il termine ‘teoria implicita’.

Ripeto, abbiamo sempre una teoria (implicita) a rappresentare il nostro

approccio e il nostro movimento verso la conoscenza di qualcosa che

riguardi l’uomo.

Esistono anche le teorie studiate sui libri ma in fondo ogni teoria è implicita.

Esse ci accompagnano e si organizzano nel tempo, strutturando il

nostro stesso ‘essere’ attraverso lo scorrere della nostra storia e condensandosi

in un’idea, appunto implicita, di essere umano che, volenti o nolenti,

rechiamo dentro noi stessi.

Queste teorie sono molto importanti, esse includono anche aspetti della

soggettività dell’analista che non sempre sono conosciuti dall’analista come

ad esempio la propria conoscenza relazionale implicita (Lyons-Ruth, 1998)

che pu. essere considerata una teoria (implicita); anche per questo è utile

portarle alla luce (ad es. con l’analisi personale) perché anche se non conosciute,

o forse proprio per questo, agiscono il nostro stare con il paziente, il

modo in cui ci poniamo con lui, gli investimenti che attuiamo su lui stesso.

Per quanto ci si impegni e si lavori per rendere esplicite queste teorie, tra

cui annovero anche i propri referenti epistemologici, non sempre questo è

possibile e cos., spesso, il nostro agire clinico resta in parte invisibile ai

nostri occhi.

Emerge quindi una questione importante che riguarda appunto i referenti

epistemologico-teorici dell’analista che è connessa, da un lato, in senso più

generale, con l’idea di essere umano che alberga nell’analista stesso e con

l’idea che egli ha di come l’essere umano evolva e possa cambiare, da un

altro vertice e in senso più specifico ha invece a che fare con l’obiettivo e

con il metodo dell’analisi.

Risulta fondamentale che l’analista sia, per quanto possibile, in contatto

con i suoi reali intendimenti riguardo queste due questioni sapendo anche

che i loro campi di influenza in parte si sovrappongono; inoltre è possibile

che esista un’incongruenza tra i referenti teorici impliciti e quelli a cui l’analista

ritiene esplicitamente di riferirsi.

L’incongruenza più grande, direi un implicito occidentale universale,

riguarda ‘l’essere’ che pensiamo di cogliere quando invece esso resta nascosto,

rimane ‘obliato’ (Heidegger, 1971).

In altri termini: quando diciamo ‘io sono’, oppure ‘il paziente è’: cosa

intendiamo?

Quando michele minolli scrive: ‘io sono e amo te’ o, ‘l’Io-soggetto

afferma sé stesso’ (minolli e Coin, 2007), cosa intende?

Quale è il senso dell’io sono? E quale è il senso dell’affermarsi?

Ogni teoria (implicita, esplicita, psicoanalitica e non) alla base dell’intervento

terapeutico, veicola un’idea di ‘essere’ umano; ma, sulla scia del

pensiero di Heidegger, in verità ‘nasconde’ il senso dell’essere.

È inevitabile porsi quindi la domanda ontologica del senso dell’essere,

di come vederlo e come coglierlo.

 

Heidegger e la fenomenologia

Secondo Heidegger, fenomenologia significa: lasciar vedere ciò che si

manifesta, così come si manifesta in sé stesso a partire da come esso stesso

si manifesta (Heidegger, 1971, p. 303).

Che rimanda alla massima: ‘alle cose stesse’.

L’ontologia si identifica quindi con la fenomenologia. Il concetto

fenomenologico di fenomeno intende che l’essere dell’ente si auto-manifesta,

nel suo senso, nelle sue modificazioni e nei suoi derivati. ‘Dietro’

l’essere dell’ente non pu. assolutamente stare ancora alcunché che ‘non

appare’. Dietro i fenomeni della fenomenologia non c’è essenzialmente

null’altro.

‘Essere coperto’ è il concetto contrario di ‘fenomeno.’

La fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente: ontologia (ibid).

Quindi il punto è chiedersi cosa sia l’essere e quale il suo senso. La questione

è capitale e come ho accennato, la risposta a tale domanda risulta

spesso implicita ma erronea.

Qual è il senso dell’essere? Da qui in avanti consideriamo sinonimi i termini

‘ente’ e ‘oggetto’; il primo proprio della filosofia e il secondo tipico

della psicoanalisi.

Heidegger sostiene che tutta la storia del pensiero filosofico occidentale

ha ‘obliato’ il senso dell’essere che è stato inteso fondamentalmente

come ‘semplice presenza’ (Heidegger, 1971); il termine presenza in que-

sto caso va inteso nel senso di essere ‘esistente’ e il termine esistente va

inteso, tradizionalmente, come presente nella realtà, oggettivando la realtà

stessa.

Se per certi aspetti, nel senso oramai comune, la parola ‘esistenza’ indica

il sussistere nella realtà effettiva, per Heidegger invece esistenza indica unicamente

l’ex-sistere della vita umana, il suo carattere ‘estatico’ nel senso del

suo ‘stare fuori’ ed essere esposta a ‘possibilità’, al suo ‘non ancora’, che

esige di essere ‘progettato’ e deciso (Vattimo, 1971).

Più in alto della ‘realtà’ si trova la possibilità. La comprensione della

fenomenologia consiste esclusivamente nell’afferrarla come possibilità

(Heidegger, 1971, p. 308).

Il termine tedesco per esistenza è dasein, alla lettera esser-ci. Esso esprime

bene il fatto che l’esistenza, per Heidegger, non si definisce solo come

oltrepassamento che trascende la realtà data in direzione della ‘possibilità’,

ma che questo oltrepassare è sempre in ordine a qualcosa, è sempre, cioè,

concretamente situato: ci è. Esistenza, ‘Esserci, essere nel mondo sono

quasi sinonimi. Tutti e tre i concetti indicano il fatto che l’uomo è situato in

maniera dinamica, che cioè è nel modo di ‘poter essere’ o anche, come

Heidegger specificherà in ‘Essere e tempo’, nella forma del ‘progetto’

(Heidegger, 1971).

Il senso dell’essere dell’uomo è minato nelle sue fondamenta fin dal

nascere dell’antropologia (inizialmente dal pensiero dell’antica greca e in

seguito dal cristianesimo) (Heidegger, 1971) i cui insufficienti fondamenti

ontologici si sono insinuati anche nella psicologia e a seguire, possiamo

pensare, nella psicoanalisi.

L’antropologia tradizionale si fonda su due impliciti:

La concezione dell’uomo, ai tempi della tradizione greca, come animale

razionale; animale inteso come semplice-presenza e di accadimento.

Razionalità intesa come una dotazione più elevata il cui modo di essere non

è meno oscuro di quello dell’ente cos. concepito (Heidegger, 1971).

L’altro implicito alla base della concezione dell’essere e dell’essenza

dell’uomo ha un’origine teologica: ‘facciamo l’uomo a nostra immagine

e somiglianza’. Questa infiltrazione teologica nell’antropologia ha portato

a concepire l’essere dell’uomo non diversamente dall’essere di Dio, e

anche se nel corso dell’età moderna la definizione cristiana fu de-teologizzata,

l’idea della trascendenza, secondo cui l’uomo è qualcosa che

tende al di là di sé, ha le sue radici nella dogmatica cristiana e questa idea

di trascendenza, per cui l’uomo è qualcosa di più di un essere intelligente,

ha esercitato la sua influenza in vari modi (Heidegger, 1971).

Questi due impliciti indicano che nel definire l’essenza dell’uomo

si è dimenticato il problema del suo essere, considerandolo per sé stesso

ovvio nel senso dell’essere semplicemente-presente comune a tutte le

altre cose reali.

 

Cartesio e la dicotomia mente corpo

L’implicito della tradizione greca e quello teologico si intrecciano nell’antropologia

moderna e nella psicologia attraverso un’impostazione metodologica

che prende le mosse dal pensiero cartesiano fondato sulla separazione

tra res extensa e res cogitans ossia tra corpo e mente. Le fondamenta

teoriche della psicoanalisi tradizionale sono state fecondate dalla dottrina

cartesiana della mente, intesa come isolata (separata), e ci. ha determinato

conseguentemente la suddivisione del mondo soggettivo in due ambiti, uno

interno e uno esterno, la reificazione di tale separazione e quindi il concepimento

della mente come un’entità collocata tra altri oggetti, ‘una cosa

pensante’, con contenuti suoi, in rapporto ad un mondo esterno da cui rimaneva

estranea. Nella cultura occidentale la filosofia cartesiana si è infiltrata

nel corso dei secoli dentro al pensare comune e, attraverso il concetto implicito

di mente isolata (Stolorow & Atwood, 1992) anche dentro il pensiero

psicoanalitico in modo permanente ma negli ultimi quarant’anni alcune teorie

testimoniano il tentativo di riorientare le fondamenta psicoanalitiche

deviandole dalla loro derivazione concettuale cartesiana: dal relational

track, rappresentato in modo particolare dall’opera di mitchell e Aron

(1999) alla meta-teoria dell’Io-soggetto di michele minolli (2015).

Se una volta si parlava di soggettività isolate (Stolorow & Atwood,

1992) ‘curabili’ in modo a sé stante, oggi le menti non sono più considerate

isolate ma intrinsecamente interconnesse (Aron, 1996; Beebe & Lachmann,

2002; milanesi, 2015; Tronick, 2007. Si è passati da una psicologia monopersonale

ad una psicologia bi o multi-personale (Aron, 1996; Lichtenberg

et al., 1996; mitchell & Aron, 1999), da una concezione intrapsichica dello

sviluppo ad una concezione interattiva (milanesi & De Robertis, 2013;

Tronick, 2007).

Questa evoluzione nel discorso psicoanalitico indica senza dubbio un

movimento volto al superamento della visione freudiana totalmente inscritta

nel paradigma scientifico ottocentesco positivista e riduzionista che si

basa su concetti quali la linearità causa-effetto, il tempo lineare, la ricerca e

scomposizione parcellizzante degli elementi costitutivi di un fenomeno, una

concezione della realtà come unica, oggettiva, esterna e separata/indipendente

dall’osservatore; insomma un passaggio a ci. che viene definito il

paradigma della complessità e che sembra superare l’antica concezione di

cartesiana memoria (Bocchi & Ceruti, 2007). Sono del parere che invece la

svolta della complessità non è sufficiente e probabilmente neanche diretta a

superare l’oblio dell’essere insito nei vari approcci teoretici volti alla comprensione

dell’essere umano. Non è sufficiente riconoscere l’effetto dicotomizzante

del pensiero cartesiano per superare la dicotomia: quest’ultima è

insinuata nel senso dell’essere e non è superabile ‘in teoria’ ma solo nei

modi ‘effettivi di essere’.

Riferendoci nuovamente a Cartesio, infatti, è necessario dire che nel

cogito ergo sum egli non ha mai approfondito il senso del ‘sum’ e poiché

anche le cogitationes restano ontogicamente indeterminate (Heidegger,

1971), e cioè, di nuovo, sono assunte, all’interno delle varie discipline di

studio, in modo implicitamente ovvio come qualcosa di dato, il cui essere

non suscita dubbio alcuno, la problematica resta inevasa riguardo ai suoi

fondamenti ontologici1 e forse ci. è individuabile anche all’interno del

concetto di ‘mente’ come espresso poco più sopra.

‘(…) se si muove da un io o da un soggetto già dati, si fallisce del tutto il contenuto

fenomenico dell’Esserci. Ogni idea di soggetto, quando non sia stata

chiarita attraverso una determinazione ontologica preliminare di fondo, è

ancora ontologicamente partecipe del principio del ‘Subjectum’, anche se,

onticamente, ripudia nel modo più netto la teoria ‘dell’anima come sostanza’

e la ‘reificazione della coscienza’… Affinché sia possibile chiedersi che cosa

si intenda quando si parla di un essere del soggetto, dell’anima, della

coscienza, dello spirito, della persona, non reificato, bisogna innanzitutto

aver mostrato la provenienza ontologica della ‘cositá’ come tale’ (Heidegger,

1971, p.318).

Possiamo dire che senza questa preliminare analisi, la definizione del

soggetto risulta ontologicamente inadeguata: infatti il concetto ontologico

del soggetto non definisce l’ipseità dell’io in quanto sé stesso, ma l’identità

e la persistenza di una semplice presenza sempre già tale.

Determinare ontologicamente l’io come soggetto, significa in tal caso

assumerlo come già da sempre semplicemente-presente. L’essere dell’io,

in quest’ottica è inteso come realtà della res cogitans (ivi, p. 621).

Quindi, normalmente, il tema del rapporto con l’essere da parte dell’uomo

e da parte delle varie teorie, psicologiche, antropologiche, sociologiche

eccetera, non è affatto toccato anzi, è nascosto, mistificato attraverso

oggettivazioni, dimenticato appunto.

1 Cartesio ha accentuato la restrizione del problema del mondo a problema delle cose

di natura, assunte come l’ente che si incontra innanzitutto nel mondo. Egli ha consolidato

la convinzione che la conoscenza ontica (vedi nota nella pagina seguente) di un ente che è

ritenuta la più rigorosa sia anche la via d’accesso più idonea all’essere primario dell’ente

scoperto in tale conoscenza. Bisogna dunque riconoscere che le ‘integrazioni’ dell’ontologia

della cosa riposano, in fondo, sulla medesima base dogmatica dell’ontologia di Cartesio.

(…) solo se è stato riconosciuto al concetto dell’essere in generale l’orizzonte della sua possibile

comprensibilità, e se di conseguenza, sono state chiarite in modo ontologicamente originario

l’utilizzabilità e la semplice-presenza, sarà possibile (….) questa critica dell’ancor

oggi predominante ontologia cartesiana del mondo (Heidegger, 1971, p. 377, 378).

 

Un nuovo modo di pensare l’essere

L’idea Heideggeriana è quella dell’uomo come ‘poter essere.

Il ‘poter essere’ rappresenta il senso stesso del concetto di esistenza.

Scoprire che l’uomo è quell’ente che è in quanto si rapporta al proprio essere

come alla propria possibilità, cioè che è solo in quanto ‘può’ essere,

significa scoprire che il carattere più generale e specifico dell’uomo, la sua

natura o essenza, è l’esistere. L’essenza dell’uomo è l’esistenza (Heidegger,

1976, p. 50).

Termini come natura, essenza o esistenza andrebbero scritti tra virgolette

perché densi di significati storici e passibili di grandi equivoci; se diciamo

infatti che l’uomo è definito dal suo poter essere, cioè dal fatto che si rapporta

al proprio essere come alla propria possibilità, che senso avrà parlare per lui

di essenza e di natura? Secondo la metafisica tradizionale, quando si parla

della natura di un ente, si intende l’insieme dei caratteri costitutivi (ontici2)

che quell’ente possiede e senza dei quali non è quello che è. ma dire che la

natura dell’uomo è di ‘poter essere’ equivale a dire che la sua natura è di non

avere una natura o un’essenza. Da qui l’affermazione che l’esistenza precede

l’essenza. Affiora in tutta la sua complessità il senso del termine ‘esistenza’:

qualcosa di esistente è inteso generalmente come qualcosa di reale, cioè,

come si è accennato, di semplicemente presente. Del resto, l’essere supremo

della metafisica, Dio, è anche eterno, cioè appunto presenza totale, universale

e immodificabile (Vattimo, 1971). ma se l’uomo ‘è’ poter essere, il suo modo

di essere è quello della possibilità e non della realtà. Dire che l’uomo esiste

non pu. dunque significare che egli sia qualcosa di dato, perché anzi, quello

che egli ha di specifico e che lo distingue dalle cose è proprio il fatto di rapportarsi

a delle possibilità, e quindi il fatto di non esistere come realtà semplicemente

presente. Il termine esistenza, per l’uomo, va inteso nel senso etimologico

di ex-sistere, star fuori, oltrepassare la realtà semplicemente presente,

in direzione della possibilità. Se intendiamo il termine esistenza in questo

senso, esso andrà riservato all’uomo soltanto.

michele minolli (2017) diceva che la vita è quella che è, che ciascuno di

noi è quello che è; e sosteneva che il livello più profondo e difficile da raggiungere

è proprio andare a ‘toccare con mano’ questo livello senza fare giri

pindarici su ci. che avremmo dovuto o voluto essere. Diceva michele

minolli: ‘non è questione di rassegnarci, si tratta di raggiungere quello che

siamo e partire da lì, non da ciò che non siamo’. Ritengo possibile e utile

2 Ontico è il neologismo introdotto da Heidegger per distinguere le determinazioni che

si riferiscono all’ente nella sua immediatezza e quindi nelle sue categorie secondo il pensiero

tradizionale, colto secondo un atteggiamento non filosofico, da distinguere da quelle ontologiche

che si riferiscono all’ente considerato nella sua ‘essenza’ cioè nella sua specifica

modalità d’essere.

dare maggior fondamento a queste affermazioni semplici ma di grande

profondità. La via per fare ci. si radica nel porsi la domanda ontologica del

senso dell’essere e del come coglierlo; nel procedere verso ‘le cose stesse’

attraverso l’uso che Heidegger fa della fenomenologia a partire da Husserl

(1992), per altro suo maestro.

Il fenomeno, inteso fenomenologicamente, è sempre e soltanto ci. che

costituisce l’essere, e l’essere è sempre l’essere anche di quell’oggetto che

chiamiamo uomo.

Quindi lo studio dell’essere dell’uomo metterà in luce, non l’insieme

delle proprietà che determinano la sua realtà, ma sempre solo i possibili

modi di essere dell’uomo stesso.

Quell’essere stesso (verso cui) in quanto suo proprio l’Esserci può comportarsi

(tenersi in rapporto) in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo

si comporta e si tiene in rapporto, noi lo chiamiamo esistenza. (Heidegger,

1971, p. 277, 278).

Pu. essere interessante notare la risonanza e i significati che si attivano

in noi mentre leggiamo il presente scritto quando incontriamo le parole che

declinano o coniugano rispettivamente il sostantivo o il verbo essere. È possibile

uno spaesamento che fa oscillare tra il cogliere l’essere, o meglio tra

l’’Esserci’ (mentre si legge), e l’oggettivare il contenuto dello scritto, considerandolo

res cogitans.

L’Esserci ha insita la capacità di comprendersi in qualche maniera nel

suo essere. La comprensione è l’essere esistenziale del poter-essere proprio

dell’Esserci stesso, ed è siffatta che questo essere rivela a sé stesso come

stanno le cose a proposito dell’essere che gli è proprio (ivi, p. 428).

Come ci muoviamo nella stanza d’analisi alla ricerca dell’essere dei

pazienti? Quali sono gli impliciti che ci guidano? Dov’è il nostro essere?

Dove siamo noi?

Il fondamento essenziale dell’Esserci non pu. essere trovato esibendo il

contenuto obiettivo di ‘un qualche cosa’, ma la sua essenza consiste piuttosto

nel fatto che esso ha ogni volta da essere il suo essere in quanto suo. L’esserci

si comprende sempre a partire dalla sua esistenza, da una possibilità che esso

possiede di essere sé stesso o non sé stesso (….) queste possibilità l’esserci

o le ha scelte lui stesso, o vi è incappato, o è già da sempre cresciuto in esse

(….) L’esistenza è decisa, nel senso del possesso o dello smarrimento, esclusivamente

da ogni singolo Esserci (Heidegger, 1976, p. 57).

 

Le cose del mondo

L’Esserci è ‘essere-nel-mondo’. Il mondo non è ‘essenzialmente’ il

mondo delle cose ‘semplicemente presenti’, delle cose oggettivate, prima di

  1. esso è parte dell’essere dell’Esserci, cioè è un esistenziale, un in-esserci.

In una fase del divenire del suo pensiero, michele minolli (2017), sosteneva

che ‘l’Io-soggetto ‘è’ l’altro’, ‘è’ il suo contesto. Successivamente, credo di

poter dire che non abbia approfondito questa visione forse perché sentita

troppo filosofica, chissà. Vedere negli oggetti una realtà oggettiva di cose

semplicemente presenti vuol dire obliare e perdere l’essere dell’uomo nell’oggetto

stesso. Possiamo dire, seguendo l’epistemologia della complessità,

che non esiste possibilità di oggettivazione e che non c’è una verità nell’oggetto

che pu. venire scoperta e sottoposta a leggi universali; questo è

senz’altro condivisibile ma ci. non modifica lo statuto esistenziale del proprio

porsi. Di fatto l’uomo continua, anche proclamandosi gnoseologicamente

immerso in una ‘complessità’, a nascondersi all’essere e a sé stesso:

fugge nell’oggetto. L’oggetto è, primariamente, parte dell’essere dell’uomo

e solo secondariamente acquisisce un essere di cosa semplicemente presente;

non è là fuori come cosa in sé inconoscibile, né nella realtà diversa a

seconda dei punti di vista, dello sguardo di osservazione o del metodo di

osservazione secondo l’ottica ‘complessa’; prima di tutto ci., l’oggetto è

scoperto grazie ‘all’apertura’ dell’essere dell’Esserci.

Quindi la visione epistemologica complessa non sposta il senso dell’esistere

dell’uomo, lo ricolloca nell’oblio di sé attraverso uno spostamento che

non cambia il piano della conoscenza ontologica.

Un vero spostamento di piano implicherebbe necessariamente uno sconvolgimento

in chi conosce, sconvolgimento che vedrebbe l’osservatore non

più in un luogo esterno all’orizzonte osservato ma lo introdurrebbe

nell’’osservato’ stesso unificandone la visione attraverso un’esperienza

fenomenologica che transiterebbe in un perdimento angoscioso come di chi

si scopre di fronte a sé e al mondo colti come tali (Heidegger, 1971).

Una visione unitaria dell’uomo e l’essenza dell’unitarietà dell’uomo,

senza dubbio sostenibili, dovrebbero venire cercate nell’’essere-nel-mondo

in quanto referente unitario’, sottraendole alla implicita e irresistibile tendenza

oggettivante/obliante.

Le cose che si incontrano nel mondo, prima di essere delle semplici presenze,

sono per noi degli ‘strumenti’ cioè non sono innanzitutto ‘in sé’ ma

anzitutto in rapporto con noi come ‘strumenti’ e come ‘significati’; il loro

essere è radicalmente e costitutivamente in rapporto all’essere ‘progettante’

dell’Esserci. Viene scossa nelle fondamenta la mentalità comune e il pensiero

filosofico di secoli per cui si ritiene che la realtà ‘vera’ delle cose sia

quella che si coglie ‘obiettivamente’, con uno sguardo disinteressato tipico

tra l’altro delle Hard Sciences. Proseguendo la critica all’epistemologia

della complessità, vorrei sostenere che il presupposto di impossibilità a

cogliere la realtà oggettivamente, che negli ultimi decenni, proprio sulla

base di tale epistemologia ha preso piede, in verità mi pare solo enunciato

e non ‘esperito’ perché a mio avviso anche in tale ottica la concezione della

conoscenza della realtà si fonda sull’ontologia tradizionale, che deposita

nell’oggetto, separato da un ‘mondo’, la possibilità di reperire una qualche

forma di conoscenza dell’oggetto stesso anche se non ambisce più allo svelamento

di una conoscenza obiettiva, assoluta e immodificabile. Dire che

non esiste una verità nell’oggetto (nell’ente) è essa stessa una verità presunta

che sposta nell’ente semplicemente-presente la ricerca di qualcosa che si

situa a livello ontico, baipassando la problematica ontologica di fondo.

Superare l’epistemologia parcellizzante, cartesiana, o positivistica è

impresa che non pu. non coinvolgere il senso dell’essere. Nelle parole di

Umberto Galimberti (2005, p. 72) un importante supporto: ‘Ente’ è ciò che

indica ogni determinazione della realtà (…) ‘Essere’ è ciò che ‘entifica’

l’ente, ciò che lo fa essere ente e non ni-ente.’

L’uomo è un generatore di significati e il mondo è l’ambito di significatività

nel quale l’esserci è sempre ‘gettato’; la monditá è cos. interpretata

come la totalità di rimandi della significatività e la coincidenza tra mondo

come totalità di ‘strumenti’ e mondo come totalità di ‘significati’ si rivela

decisiva (Vattimo, 1971).

Per l’Esserci, essere nel mondo equivale a essere originariamente intimo

con una totalità di significati. Il mondo non gli è anzitutto dato come un insieme

di oggetti con i quali, in un secondo momento, egli si mette in rapporto,

attribuendo loro significati e funzioni. Le cose gli si danno già sempre come

fornite di una funzione, cioè di un significato; gli possono apparire come cose

proprio solo in quanto si inseriscono in una totalità di significati di cui già

dispone. Potremmo dire, in altri termini, che il mondo ci si dà solo in quanto

noi già sempre (cioè originariamente, prima di ogni esperienza particolare)

abbiamo un certo patrimonio di idee, se si vuole, anche certi pregiudizi, i quali

ci guidano alla scoperta delle cose del mondo (Vattimo, 1971). Radicato in

questi concetti c’è un cambiamento di prospettiva decisivo: l’Esserci si sostituisce

al soggetto inteso come qualcosa che sta di contro a un oggetto, di origine

Cartesiana; ma si sostituisce anche alla visione complessa proposta

dall’epistemologia della complessità che, come detto, permane nell’oblio dell’essere

e ‘complica’ la possibilità di coglimento del suo più proprio essere da

parte dell’uomo. Secondo la visione espressa in Essere e tempo il soggetto

non ha di fronte a sé il mondo, l’Esserci partecipa al mondo con tutto sé stesso,

non lo osserva solamente (Heidegger, 1971). Proseguendo, possono risultare

utili alla delucidazione di questa difficile impostazione le parole di

Jaspers (1947, p. 38), che a proposito dell’Essere scrive: l’Essere, con il progressivo

manifestarsi di tutti i fenomeni che ci vengono incontro, come tale

indietreggia. Questo essere che non è oggetto (che è sempre delimitato),né

una totalità che si configuri come orizzonte (che sempre limita), noi lo chiamiamo

Umgreifende (….) In sé stesso l’Umgreifende propriamente non ci

appare ma nell’Umgreifende ci appaiono tutte le cose.

Fra l’interno e l’esterno di noi c’è, in qualche modo una continuità, il

mondo fa parte di noi come costitutivo dell’Esserci, anche se noi non lo

determiniamo. Non ci sta di fronte come siamo abituati a pensare ma, più

propriamente, ci appartiene come elemento essenziale della nostra situazione

esistenziale.

Il mondo deve venire ‘aperto’, e di fatto viene aperto (scoperto) come

mondo in cui essere, come ‘in-essere’ e in esso l’uomo, mediamente si

nasconde.

 

Situazione emotiva e relazione

Heidegger (1971) affronta il problema delle dinamiche relazionali, quando

tratta il tema della struttura ontologico-esistenziale dell’’essere-con’.

Quest’ultima affianca ed è co-originaria all’esistenziale dell’in-essere che,

come abbiamo visto, rappresenta l’essere nel mondo. L’Esserci, che è l’essere

che ci-è, è allo stesso tempo co-originariamente un in-essere e un essere-con.

Il con-esserci indica l’esserci dell’altro che, insieme al mio esserci, esiste

nel mondo.

È necessario introdurre a questo punto una nozione che Heidegger

(1971) chiama ‘situazione emotiva’. Questa pu. a mio avviso essere assimilata

a ci. che Daniel Stern chiama ‘affetti vitali’ (Stern, 1985). Una sorta

di lieve attivazione fisiologica su base emotiva che accompagna costantemente

e in tonalità differenti lo stato di fondo del vivere quotidiano che alla

lettera va inteso come il modo di trovarsi, il sentirsi in questo o quel modo,

la tonalità affettiva nella quale ci capita di essere. In essa l’Esserci viene

condotto innanzi a sé stesso ma non in forma di autopercezione piuttosto in

forma di ‘auto sentimento situazionale’ che si rivolge proprio all’essere

‘gettato’ ma subito se ne distoglie.

L’Esserci, in quanto essere nel mondo non solo ha sempre, come già

detto, una certa comprensione di una totalità di significati, ma ha sempre

anche una certa tonalità affettiva; le cose cioè non solo sono già sempre fornite

di un significato in senso teorico, ma anche di una valenza emotiva;

quindi l’Esserci si trova sempre e originariamente in una situazione emotiva

che accompagna la comprensione e l’interpretazione del mondo, una specie

di prima prensione globale del mondo che fonda in qualche modo la comprensione

stessa. Nella situazione affettiva ci troviamo ad ‘essere’ senza

potercene dare ragione e l’Esserci non pu. essere del mondo (e quindi le

cose non possono darglisi) se non alla luce di una tonalità affettiva che, radicalmente,

non dipende da lui; di conseguenza la situazione affettiva ci mette

di fronte al fatto che il nostro modo originario di prendere e comprendere il

mondo è qualcosa che ci sfugge nei suoi fondamenti.

La situazione emotiva apre l’Esserci nel suo ‘essere gettato’ (Heidegger,

1971) ed è cosa ben diversa dal constatare uno stato psicologico; inoltre

essa non ha il carattere di una comprensione riflessiva, nel senso che ogni

riflessione immanente pu. incontrare ‘esperienze vissute’ soltanto perché la

situazione emotiva ha già aperto l’essere. La semplice tonalità emotiva è

alla base dell’apertura dell’essere più originariamente di ogni percezione di

sé, ma anche, corrispondentemente, pu. chiudere l’essere più recisamente

di qualsiasi non percezione. È ci. che si vede in alcune forme depressive in

cui l’Esserci diviene cieco nei confronti di sé stesso.

La situazione emotiva ci assale ed è cos. poco una percezione riflessiva

che coglie l’Esserci proprio nella irriflessività del suo immergersi e sommergersi

nel mondo. Essa non viene dal di fuori né dal di dentro, sorge

nell’essere nel mondo stesso come una sua modalità e ha già sempre aperto

l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo cos. possibile un dirigersi

verso (ibid). Ci. mi porta a sostenere che l’uomo ha bisogno di relazioni

solo secondariamente all’apertura del proprio essere e le interazioni

risultano fondamentali per il divenire dell’essere stesso nelle sue possibilità

ma la relazione non è il fondamento dell’essere.

Il vero fondamento è l’Esserci stesso in quanto, prima e più fondamentalmente,

comprende l’essere e apre un orizzonte dentro cui diventano visibili

gli oggetti. ma l’orizzonte trascende e precede (non ovviamente in

senso cronologico) gli oggetti; e l’Esserci come tale non è un ‘fondamento’

nel senso in cui ne parla il principio metafisico di ragion sufficiente:

l’Esserci non pu. essere a sua volta fondato, perché è proprio lui che apre

a quell’orizzonte, il mondo, dentro cui si colloca ogni rapporto di fondazione.

L’esserci non è una semplice presenza perché esso non è altro che progetto

(ibid).

Il progettare non ha nulla che vedere con la programmazione di un piano in

conformità al quale l’Esserci edificherebbe il proprio essere; infatti l’Esserci si

è già sempre progettato e fintanto che è, resta progettante. L’esserci si comprende

già sempre e continua a comprendersi, fintanto che è, in base a ‘possibilità’

(…) Il carattere di progetto significa inoltre che l’Esserci non coglie ciò rispetto

a cui progetta, cioè le possibilità. Un cogliere del genere sottrarrebbe al progettato

proprio il suo carattere di possibilità, degradandolo a entità data e pensata;

viceversa, il progetto, progettando la possibilità come possibilità, la getta

avanti a sé stesso, lasciandola essere come tale (Heidegger, 1971, p. 429).

Quindi: Essendo, l’esserci è determinato come un potere-essere che appartiene

a sé stesso, ma tuttavia non in quanto esso stesso si sia conferito il possesso di

sé. Esistendo, esso non può risalire oltre il proprio essere-gettato (…) l’essergettato

non precede l’Esserci come un evento fattuale (…).

Solo essendo quell’ente che esso può essere esclusivamente in quanto consegnato

ad esserlo, è possibile che, esistendo, esso sia il fondamento del proprio poteressere.

Poiché il fondamento non è posto dall’Esserci stesso, l’Esserci giace in

una pesantezza che la tonalità emotiva gli rivela come un gravame (…) Ma in

quale modo l’Esserci è questo fondamento che è stato-gettato? (…) esistendo, ‘ha

da assumere l’esser-fondamento’ (Heidegger, 1971, p. 582).

Definirei tali processi ‘impliciti’ come le teorie implicite di cui ho accennato

più sopra cos. come è implicito che la nozione di essere, l’Esserci non

la ricava dagli oggetti o dai soggetti del mondo, dato che questi gli si danno

in origine nell’apertura che l’Esserci stesso opera con il proprio aprirsi e

fondare il progetto, il che indica un trascendentalismo dell’oggetto e un rapportarsi

prima e più fondamentalmente all’essere che non all’oggetto/soggetto

(Vattimo, 1971).

Si potrebbero ripensare alcuni concetti psicoanalitici e relazionali alla

luce di questi fondamenti. Una via di ripensamento potrebbe passare attraverso

la nozione di ‘investimento’. Tale concetto va pensato come totalmente

disancorato dall’investimento pulsionale inteso in senso freudiano

(Freud, 1915-1917). Potremmo pensare l’investimento sull’oggetto o sull’altro

come modo di ‘essere nel mondo’, come ‘in-essere e con-essere’.

L’Esserci trova ‘possibilità d’essere’ dando senso3 all’oggetto o all’altro

come definente ad un certo livello la propria esistenza cioè la propria possibilità

d’essere. L’Esserci non ‘è’ semplicemente, ma piuttosto si manifesta,

ossia ‘significa’. In altri termini: l’investimento sull’altro è significazione

e dunque espressione d’essere. Si potrebbero immaginare vari ‘livelli di

coglimento’ di tale investimento cioè di ‘contatto’ con il personale significato

(sentito come proprio) assunto dall’oggetto in funzione dell’espressione

della propria possibilità d’essere. Questi livelli di coglimento potrebbero

venire paragonati alla ‘presenza’ cos. come concettualizzata da michele

minolli (2015).

Cosa vuol dire che l’essere umano è un produttore di significati ed esprime

il proprio essere nell’investimento? Queste parole, cos. espresse, pagano

il debito dell’oblio dell’essere e producono una dicotomia tra il soggetto e i

presunti significati che esprime e che da lui si pensano originati.

Esisterebbe, sulla base di questa idea, un soggetto con una mente (reificata)

che produrrebbe significati ‘oggettivi’ posti là fuori in una realtà a sua volta

preesistente.

Dire che il cogito cartesiano ha creato una dicotomia non significa non

vivere ancora tale dicotomia.

L’essere umano non esiste a priori del significato insito nell’investimento.

Tale significato ‘è’ l’essere; e permette di sentirsi esistenti in quanto

immette in ‘possibilità d’essere’.

‘Sento che esisto perché inevitabilmente investo’ e, seguendo questa

linea, ogni espressione di sé è investimento e quindi espressione d’essere:

affermazione di sé per michele minolli (ibid). È bene dire che l’essere

3 Quando un ente è scoperto tramite l’essere dell’Esserci, ossia è compreso, diciamo

che ha senso. A rigor di termini, però, ciò che è compreso non è il senso, ma l’ente, o l’essere

(…) Senso è ciò entro cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa (….) Ciò che è articolabile

nell’aprire-comprendente, noi lo chiamiamo senso (Heidegger, 1971, p. 436).

umano non dà senso a ci. che fa o al suo esprimersi ma è il ‘fare’ stesso che

esprime il senso del suo essere. Sarebbe interessante approfondire l’origine

dell’investimento del bambino e da qui il possibile contatto esistenziale con

l’investimento sentito in quanto proprio. Ogni essere umano è infatti nella

condizione di rapportarsi al suo investimento cogliendolo come proprio e

dunque cogliendo il proprio essere.

L’esserci è fatto in modo tale che, essendo, comprende qualcosa come

l’essere. Quindi pu. comprendere e, di fatto, sempre comprende il proprio

essere (Heidegger, 1971).

L’azione della coscienza della coscienza, cos. come concettualizzata da

michele minolli (2015) e intesa come livello più evoluto di espressione dell’essere

umano, mi pare riecheggi nelle parole di Heidegger quando scrive:

L’ascolto genuino della chiamata della coscienza equivale all’autocomprensione

dell’Esserci nel suo poter essere più proprio (….) L’esserci, che comprende

la chiamata, ascoltando ubbidisce alla possibilità più propria della sua esistenza.

Ha scelto sé stesso (…) Comprendendo la chiamata, l’Esserci lascia agire

in sé il sé stesso più proprio in base al poter essere che è scelto. Solo così

l’Esserci può essere responsabile (Heidegger, 1971 p. 586).

Può essere interessante e ulteriormente chiarificante un breve confronto

tra la concezione dell’amore secondo minolli (2016) e Biswenger (2020).

Quest’ultimo opera una critica al fondamento dell’ontologia

Hedeggeriana che emerge, tra l’altro, proprio nella sua elaborazione teorica

dell’amore inteso come ‘con-esserci’.

Heidegger riteneva che fosse possibile spiegare l’amore come fenomeno

ontico derivabile dalla struttura ontologica di base; Binswanger invece parla

dell’amore come un modo d’essere, e mostra che non solo l’amore può

costituire una struttura ontologica dell’esistenza, alternativa a quella heideggeriana,

ma porta a una connotazione ulteriore dell’esistenza in termini

completamente diversi.

Secondo Binswanger (ibid), il modo di essere nell’amore, di essereinsieme-

nell’amore, di essere-l’uno-con-l’altro nell’amore, non è soltanto

un modo fra altre possibili manifestazioni ontiche dell’Esserci, ma può

essere costitutivo dell’ontologia dell’Esserci umano qualora l’Esserci venga

considerato costitutivamente e intrinsecamente un con-esserci. In tal caso la

relazione (amorosa) assurgerebbe a fondamento dell’essere. Non si tratterebbe

di mero amore sessuale, di mera passione amorosa, di amore romantico

destinato alla morte, di amore platonico ideale, di amore religioso

sovrannaturale, ma propriamente dell’unione di due o più esistenze, dell’unione

attiva di cura uno-dell’altro che costituisce la trascendenza di sé stessi,

dell’ipseità egoica, in un ‘noi’.

Heidegger, pensa l’essere dell’Esserci come ‘sempre mio’ mente per

Biswenger:

Alle cose stesse. Un contributo del pensiero di martin Heidegger alla meta-teoria dell’Io-soggetto 141

(…) non possiamo adottare questo approccio all’Esserci come sempre mio (…)

per noi è importante mostrare che il Ci dell’amore e l’identità dell’Esserci come

amore non significa apertura del Ci (dell’essere) per me stesso, bensì, se possiamo

adoperare questa espressione, l’apertura del Ci per noi-stessi, e ancora

più importante (…) è mostrare che l’identità dell’amore non provoca un’identità

egocentrica, bensì una Noità. In tal senso, l’apertura dell’essere, il Ci dell’esserci

come amore, non è apertura attraverso la quale l’Esserci (come sempre

mio) ci è ‘per sé stesso’, ma ‘apertura’ attraverso la quale l’Esserci (come

Noità) ci è per Noi-stessi, per ‘Te e Me’, l’uno per l’altro e questo, a sua volta,

non coincide con l’Esserci nel mondo, bensì è tutt’uno con l’esser-ci del

‘mondo’ dell’uno con l’altro. Anche qui siamo dinanzi ad un problema completamente

nuovo (Biswenger, 2020 p. 55).

Personalmente sono portato a pensare, come sopra esposto e in linea con

il pensiero di Heidegger, che sia più verosimile ritenere che l’Esserci divenga

costituivamente ed intrinsecamente un ‘con-esserci’ e quindi si apra

all’interazione con l’altro, ‘solo’ a fronte dell’assunzione del proprio nullo

fondamento che permette l’apertura dell’Esserci e dunque all’essere.

L’espressione ‘Ci’ dice di questa essenziale apertura: ‘l’Esserci è la sua

apertura’.

Secondo michele minolli (2014), nella dinamica della scoperta dell’altro

separato e distinto, nell’affermazione di sé, nella spinta all’autoaffermazione,

nella lotta per il riconoscimento, l’autocoscienza fonda il continuo

divenire a due in cui tutto è amabile perché il mio affetto, la mia aggressività

e la mia genitalità, sono io. Un amore ‘romantico’ senza tramonto poiché

io ‘sono’ e amo te. Io ‘sono’ nell’autocoscienza dei desideri e dei bisogni

riconosciuti come miei e ‘sono nell’amore che so mio’ per te.

Quindi l’essere come presupposto dell’amore: io ‘sono’ e amo te, cioè

l’essere, assunto in prima persona e sentito come proprio, veicola l’amore

maturo per l’altro. Credo di poter affermare che anche per minolli l’amore

non costituisca un esistenziale di base in senso heideggeriano ma sia da

considerare un essere possibile in divenire.

 

Conclusioni

L’affermazione ‘l’uomo esiste’ non risponde alla domanda se l’uomo sia

reale o meno ma a quella relativa all’essenza dell’uomo e quando poniamo

la domanda: chi è l’uomo o quell’uomo o quel paziente, ci poniamo di solito

nella prospettiva oggettivante di chi guarda ad una persona o ad un’oggetto

ma le categorie di persona e di oggetto precludono ci. che ha a che fare con

l’essere e la storia dell’essere. Quindi l’essenza dell’uomo, di chi sia l’uomo,

quell’uomo e quel paziente si determinerà in base all’estaticità

dell’Esserci; all’essere aperto del paziente alle sue possibilità d’essere non

ancora realizzate.

La metafisica (il pensiero occidentale) si rappresenta l’oggetto nel suo

essere e pensa cos. anche l’essere dell’ente nella sua presenza. ma cos. non

coglie l’essere come tale e non coglie la differenza tra essere e oggetto, non

la pensa. La questione di fondo è se l’essenza dell’uomo inerisca l’essere o

meno e deve ancora venire posta in modo che l’essere cos. inteso possa

venire pensato dall’uomo; in definitiva il pensiero si chiude di fronte al

semplice fatto che l’uomo ‘è’, nella sua essenza, solo in quanto è ‘chiamato’

dall’essere ed è solo dell’uomo un tale modo di essere e l’uomo stesso è

destinato a pensare l’essenza del suo essere (Heidegger, 1976).

È utopistico pensare che l’analista possa portare il paziente, e con lui

anche sé stesso, sulla strada del coglimento dell’essenza del proprio essere?

Altrimenti si narra, si racconta, si intellettualizza, ‘si gira intorno’, si

‘agisce’ come nella metafisica tradizionale, si rimane a livello ontico.

Parliamo di una umanità la cui esistenza non si fonda sulla realtà dell’ego

cogito, cos. come non si tratta solo della realtà dei soggetti che interagendo

pervengono a ‘sé stessi’. Parliamo dell’abitare e-statico nella verità

dell’essere (Heidegger, 1976 p. 84). In questo pensiero c’è da pensare qualcosa

di semplice: il pensiero dell’essere è la semplicità (ivi, p. 101). Il difficile

non consiste nel fatto che si debba attingere a qualche particolare

senso profondo e che si debbano costruire concetti complicati; si tratta di

destrutturare e lasciare entrare il pensiero in un domandare ‘capace di esperire’

e che lasci cadere l’abituale opinare dell’intelletto (ibid).

Finché il pensiero intellettualizzato non fa che precludersi la possibilità

di lasciarsi coinvolgere nella ‘cosa’ del pensiero, si mantiene al sicuro

rispetto alla possibilità di infrangersi contro ‘la cosa’ stessa: c’è un abisso

tra il ‘filosofare’ sul naufragio e lasciare che il pensiero effettivamente naufraghi

(ivi, p. 75).

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Conflitto di interessi: l’autore dichiara che non vi sono potenziali conflitti di interessi.

Approvazione etica e consenso a partecipare: non necessario.

Ricevuto per la pubblicazione: 4 aprile 2021.

Accettato per la pubblicazione: 12 ottobre 2021.

©Copyright: the Author(s), 2022

Licensee PAGEPress, Italy

Ricerca Psicoanalitica 2022; XXXIII:540

doi:10.4081/rp.2022.540

This article is distributed under the terms of the Creative Commons Attribution

Noncommercial License (by-nc 4.0) which permits any noncommercial use, distribution,

and reproduction in any medium, provided the original author(s) and source are credited.

 

*Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoanalista e Supervisore SIPRe – IFPS. Docente presso

il corso SIPRe di alta specializzazzione in Psicoanalisi del Bambino nella Famiglia. Socio

dell’Associazione Culturale “OttoCentro”. E-mail: paolomilanesi@icloud.com

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