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Alcune note sulla “Violenza Simbolica”

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Marco Riva

In: Forme della distruttività contemporanee e percorsi di cura”. Quaderni di ricerca clinica transdisciplinare, numero monografico. Mimesis ed. gennaio 2010.

 

Il concetto di «violenza simbolica»[1], introdotto all’inizio degli anni Settanta dal sociologo francese Bourdieu[2], si riferisce alle forme di violenza non esercitate con la diretta azione fisica ma con l’imposizione di una visione del mondo, di ruoli sociali e di categorie cognitive attraverso le quali viene percepito e pensato il mondo da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati. La violenza simbolica è invisibile, viene esercitata con il consenso inconsapevole di chi la subisce e nasconde i rapporti di forza sottostanti alla relazione nella quale si configura. È permeante e costitutiva dell’ambiente in cui viviamo.

Nel descrivere questa forma di violenza, Bourdieu fa principalmente riferimento a due situazioni  e cioè al rapporto uomo donna ed al sistema scolastico. Bourdieu propone una sorta di “stato delle cose” nella nostra società ovvero di una sorta di “naturale” superiorità dell’uomo sulla donna riscontrabile nelle posture, nei modi di dire e complessivamente nell’universo dei modi d’essere quale prodotto normale e normativo delle stratificazioni della storia dei rapporti uomo-donna. Analogo discorso è quello sul sistema scolastico che “riprodurrebbe” la struttura sociale esistente, riprodurrebbe cioè gli Habitus già socialmente prefigurati non permettendo, in altri termini, alcuna possibilità evolutiva o di sviluppo ma anzi tenderebbe a mantenere gli esistenti limiti tra classi sociali.

In questo iniziale accenno al concetto di Bourdieu di violenza simbolica mi sembra interessante e piuttosto esplicativa la questione di Habitus che mi sento di considerare nucleare rispetto a quella sorta di “contagio psichico” mediato dalla violenza simbolica. Per Habitus Bourdieu intende la chiave della trasmissione culturale in quanto è in grado di generare comportamenti regolari che condizionano la vita sociale, insomma una sorta di stampo prefigurante i comportamenti ed i pensieri di una classe sociale in un certo periodo storico.

Ė un sapere comune implicito, interiorizzato dai soggetti nelle loro cognizioni, nei comportamenti, fino alle posture del corpo e ai sentimenti. Il prodotto è una specie di orizzonte a-problematico e pre-riflessivo di presupposti semantici e pragmatici. L’Habitus è, quindi, una “struttura strutturante” che organizza i vissuti, le pratiche e le rappresentazioni del mondo delle persone, una matrice generativa storicamente costituita e socialmente variabile, insomma è il prodotto dell’incorporazione delle regolarità culturali dominanti. In questo contesto, nasce, agisce e si sviluppa quella violenza invisibile che Bourdieu chiama «simbolica».

Noi, che ci occupiamo di pensieri, di emozioni, noi che facciamo riferimento alle teorie della mente abbiamo vari modi per provare a descrivere questa invisibile violenza, per “vederla” nei nostri pazienti violentati e/o violentatori, per vederla nelle coppie, sino alle teorizzazioni della clinica della «follia a due» [3], nelle famiglie dove individuiamo il mobbing in azione e nei gruppi che generano «campi relazionali» magari funzionanti in «assunti di base»[4]. Abbiamo anche modi  per coglierla nelle nostre menti “controtransferali” che percepiscono l’invisibile magari cogliendo il nostro disagio e chiamandolo prodotto di “identificazioni proiettive”.

Nel provare a scrivere sulla violenza simbolica, utilizzando il mio sapere, ho trovato quel che avevo già trovato. Certo la psicoanalisi non è una disciplina del sapere finita, da Bion in poi non possiamo non considerarla “una sonda che allarga il campo che esplora” ma, utilizzando appunto il mio sapere, la mia cassetta degli attrezzi, mi sono sentito in un certo senso obbligato in un campo culturale, in un Habitus dominante e dominato da uno stile di pensiero psicoanalitico, da un’invisibile presenza di una cultura, di un modo di ragionare, divenuto mio, incorporatosi in me. Ho insomma sentito la necessità di cercare altrove rispetto ad un mio psico-sapere ed una mia prassi clinica sulle quali tornerò in seguito.

Questa ricerca mi ha fatto incontrare un terremoto, un maremoto ed un incendio. In questa ricerca sulla violenza invisibile ho incontrato una catastrofe. Nel 1755 Lisbona viene totalmente distrutta da un terremoto, un maremoto ed un incendio. Propongo perciò un percorso che parte da un male iper-visibile ad un male invisibile. Provo a parlare del male, di un male che diviene costitutivo del pensiero.

Noi abbiamo nomi adeguati ai mali psichici che conosciamo, abbiamo le diagnosi, i meccanismi neurotrasmettitoriali, i meccanismi di difesa. Qualcuno, magari anche qualcuno tra noi, ha altri nomi, nomi religiosi che si rifanno al peccato, ma anche nomi che giungono alla morale, cioè all’immoralità del male, peraltro anche codificati da una psichiatria storica nella follia morale, cioè immorale come la follia ragionante di Esquirol. Ma il male invisibile…il male in sé si annida oltre il nostro sapere e lo minaccia. Possiamo provare a lasciarlo lì dov’è e dire che è, che esiste punto e basta, che è un noumeno kantiano e in quanto tale inconoscibile, come l’invisibile per la vista è un noumeno del vedere, e appunto come la violenza simbolica è un inconoscibile per la psiche sia essa conscia che inconscia. Oppure possiamo provare a dire, provare ad avere a che fare con l’inconoscibile anche se, in quanto tale, continua a fuggire davanti all’avanzare del nostro sapere.

Prima di Lisbona il male, ogni tipo di male, era un problema morale e il peccato ed il castigo erano i principali strumenti concettuali disponibili alla ragione, e il pentimento e l’espiazione erano le procedure affidabili per trovare l’immunità dal male e per espellerlo. Il male era strettamente connesso alla colpa, il male era una conseguenza di pensieri ed azioni di qualcuno e, in quanto tale, non colpiva a caso, il male colpiva i peccatori. Il terremoto, il maremoto e l’incendio di Lisbona del I novembre 1755 sono stati considerati [5] i fattori determinanti della nascita della filosofia moderna. Da Lisbona in poi la responsabilità sostituisce il peccato ovvero la responsabilità dell’uomo nei confronti della Natura cieca si sostituisce al peccato morale dell’uomo di fronte a Dio che vede e punisce.

La filosofia moderna segue il percorso pratico tracciato dal marchese di Pombal, all’epoca primo ministro del Portogallo, che si concentra nel risolvere i mali che sono alla portata di mano dell’uomo e ricostruisce Lisbona. La ragione vince, la mano della ragione cioè la Tecnica si allunga. Il male diventa spiegabile e risolvibile. Quel che non è risolvibile adesso lo sarà domani grazie al progresso della scienza e della tecnica in quanto prodotti della ragione. Il mondo ignoto diventa conosciuto e conoscibile cioè modello scientifico del mondo. Nasce e si sviluppa un nuovo vincolo tra l’uomo e la tecnica. E’ un patto contro il male invisibile per renderlo visibile. La Natura viene progressivamente ridotta dalla logica. Il riduttivismo “funziona” sulla natura e perciò inevitabilmente sull’uomo che diviene egli stesso ridotto a oggetto e prodotto della logica. Le esperienze complesse, multiformi e ignote sono sostituite da un unico e chiaro punto di vista. Tutto ciò è estremamente attraente. Questo patto ha però un costo. Ė un patto che diviene sempre più vincolante, è un patto che diventa costitutivo dell’era moderna cioè, per tornare a Bourdieu, diventa costitutivo dell’habitus del tempo della tecnica. L’inizio del percorso, idealmente situato in un terremoto, ci trasforma progressivamente in funzioni, cioè le nostre esperienze non sono libere ma determinate da manuali ordinati secondo criteri di produttività ed efficienza [6].

Un percorso moderno fatto di una costante e irrefrenabile ricerca di modelli che non sono irreali e teorici ma anzi costituiscono il mondo e appunto noi stessi. E l’inconscio non ne è esente, cioè prima o poi, soprattutto da Freud in poi, diventerà esso stesso conscio. Il riduttivismo prende parola. Ė una parola che parla da sola, è una parola unica, è il verbo dell’idea unica che riduce il mondo a spiegazione del mondo.

Le ideologie hanno realmente, non teoricamente, ridotto il mondo ad un’idea ad una sola idea. La silenziosa e invisibile violenza simbolica della logica ha prodotto le ideologie. L’habitus intriso di logica e di tecnica ha prodotto in Germania l’olocausto, in Russia i gulag e ha prodotto la logica della bomba-logica sganciata su Hiroshima da funzionari funzionanti in un unico senso già decretato da una logica catena di comando. Hannah Arendt ci ha raccontato i totalitarismi quali prodotti delle ideologie. Ci ha mostrato la costruzione tecnica del potere della tecnica, dell’impulso trasformativo della tecnica sulla natura dell’uomo: l’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione dell’esistenza umana né al riassetto dell’ordinamento sociale bensì alla trasformazione della natura umana [7].

Vero e falso risultano elementi irrilevanti rispetto all’attrazione del potere della logica totale. La propaganda promette soluzioni per risolvere i bisogni di sicurezza, promette significati certi cioè scientifici ed incontrovertibili e riscrive la storia. Ė altresì esente da errori come solo la menzogna può essere. Cito Goebbels il ministro nazista per la propaganda:Ripetete una bugia cento, mille un milione di volte e diventerà verità e ancora: Non basta sottomettere più o meno pacificamente le masse al nostro regime, inducendole ad assumere una posizione di neutralità nei confronti del regime. Vogliamo operare affinché dipendano da noi come da una droga[8].

Noi abbiamo desiderato tutto ciò, noi abbiamo desiderato queste soluzioni del male. Noi siamo stati carnefici violentati dalla violenza invisibile di un habitus iper-logico. Noi siamo stati come il burocrate iper-ragionante Eichmann che ha organizzato l’olocausto in funzione di una logica catena di comando. Problem-solving perfetto. Eichmann è un sereno prodotto di un comportamentismo “scientifico” che lo esenta dalla morale, che lo rende assassino di milioni di persone in quanto egli stesso violentato dall’invisibile violenza di un habitus tecnocratico.

Il male torna così a farsi vedere. Non più negli occhi di Dio e nel peccato dell’uomo, non più nella Natura e nelle irresponsabilità dell’uomo, ma dentro all’uomo stesso. Lisbona ha rivelato quanto il mondo sia distante dagli uomini; Auschwitz ha rivelato la distanza degli uomini da sé stessi[9].

Oggi noi siamo differenti, siamo cambiati perché abbiamo imparato la lezione. Guardare indietro questo sappiamo farlo e sappiamo vedere e mettere distanza tra noi e loro, loro totalitaristi, tecnocrati e ideologizzati, noi post-moderni cioè multiculturali, multietnici cioè differenti da loro. Ė così? Siamo fuori da un unico habitus permeato di razionalismo morboso? Siamo fuori dalla violenza invisibile dell’ideologia dominante? Il male non ci fa più paura? Com’è oggi questo nostro post-moderno[10] che guarda ai vari passati popolati da Dei, da Dio e dalla ragione?

Abbiamo oggi molte, infinite ideologie, infinite e brillanti icone disponibili per tutti, o quasi tutti. Quella mano della ragione e della tecnica che da Lisbona si è allungata sempre più si è oggi pluralizzata in mani infinite delle ragioni. Tutto è alla portata di mano grazie alla proliferazione di soluzioni ovunque e per chiunque. Il totalitarismo non è oggi riferibile ad un regime basato sul terrore e sul bisogno di produrre consensi quanto ad un’organizzazione sociale-globale basata sulla manipolazione dei bisogni del singolo individuo-schiavo-felice di vivere in un cortile-globale-chiuso saturo di bisogni e di merci sempre disponibili con le quali identificarsi[11].

Io penso che oggi la violenza simbolica non sia quella teorizzata da Bourdieu, cioè di una classe, di un gruppo, di un dominante sull’altro da sottomettere. Non sono la pubblicità-propaganda-politica i veri killer. C’è un nuovo spettro ben più invisibile. Non è l’ideologia ma è l’ideologizzazione incorporata nel singolo, l’ideologizzazione personalizzata ovvero quella che Virilio[12] chiama «individualismo di massa» quale esito del trattamento delle nostre mentalità, una per una. Credo che sia l’eccezionalità oggi possibile, l’accesso al sogno, la realizzazione possibile, la trasformazione del sogno in realtà a costituire un elemento nucleare della violenza nella quale siamo ma soprattutto desideriamo essere immersi. È l’illimitato possibile. Ė la cura del cancro oggi, la cura della morte oggi. Questo “delirio di benessere” è la malattia.

Salvare la propria pelle a qualunque costo e far sparire il male. La lotta oggi è una lotta personalizzata per avere questa possibilità. Il sogno non è più altrove come nelle ideologie di un tempo. C’è un desiderio di bugia, un desiderio di fede in sé, cioè un bisogno di abitare un delirio continuo senza essere mai svegliati. Oggi non c’è desiderio di essere ricordati ma di essere per sempre. Essere per sempre per essere sempre emozionati. Il quoziente intellettivo della trascorsa epoca si è oggi trasformato nel «quoziente emozionale» [13], cioè nella trasformazione dal convincere razionalmente al sedurre emozionalmente. Sedurre ovvero portare all’esterno le emozioni questo è quel che conta e soprattutto questo è quel che funziona. L’inconscio si è estroflesso e la pelle è diventata perciò sensibilissima e sempre più bisognosa di unguenti cioè di protezioni, di apparati protettivi, tele-protettivi, di protesi tecnologiche, di informazioni in tempo reale che ci riparino dal terrore sempre più diffuso, de-solidificato, liquido, sempre meno localizzabile perché internalizzato cioè scomparso al nostro interno. La paura in questo mondo liquido è essa stessa liquida e la violenza ancora più invisibile. Credo sia estremamente importante, oggi, immaginarne l’esistenza. Dare per scontato di essere noi oggi sottoposti ad una violenza simbolica cioè di esserne “agiti”. Dipendenti da “qualsiasicosa” vendiamo l’anima al miglior offerente, lo sappiamo, la stiamo vendendo anche oggi, a qualsiasi miglior offerente di soluzioni pur di rimanere deliranti nelle certezze definitive, pur di sostenere il nostro stato maniacale di consumare i beni di consumo, pur di poter vivere sempre nelle città-centri-commmerciali, pur di essere incorporati nelle icone vendute-offerte nel mondo-discount.

Siamo ammalati terminali di infinite soluzioni finali. La malattia grave è la guarigione, l’idea della possibile guarigione dal male. Questa è la violenza simbolica oggi, questa è la «nuova normalità»[14] oggi popolata da individui “addestrati” ad essere continuamente dipendenti da “qualsiasicosa” sotto la minaccia dell’inadeguatezza che uccide narciso, cioè del vuoto alexitimico, cioè dell’angoscia.

Noi cultori della psiche e delle cure della psiche non ne siamo esenti. Dobbiamo sapere di essere immersi in quelle che Baudrillard ha definito «strategie fatali» [15] ovvero tecniche di seduzione che producono la proliferazione di sontuosi oggetti costruiti per dominarci. Noi non siamo fuori da questo habitus, non siamo estranei a questa violenza liquida che entra in noi da ogni psico-pertugio. Ė questo un pensiero paranoico ma credo sia necessario per non esentarci, per evitare di non sentire e soprattutto per evitare di negare il male.

Dobbiamo diventare abitatori di questi mondi multipli, dobbiamo trovare un nuovo paradigma critico, per avere a che fare con habbo che è un gioco di ruolo on line che usa mio figlio adolescente, con un net-log che è un social network al quale accedono quotidianamente 50 milioni di adolescenti, con You Tube, con Facebook e non ultimi con i chatterbots cioè con i robot che popolano la rete che è oggi reale e produttrice di realtà. La rete, internet è nel mondo reale è non è “altro” da noi [16]. Noi siamo costituiti dagli incontri che facciamo pertanto non possiamo eclissare il nuovo, i nuovi esseri virtuali che stanno apparendo il che equivarrebbe ad eclissare noi stessi. Ma il compito non finisce qui, in questa attenzione, magari paranoica, al nuovo mondo cioè ai nuovi mondi.

Il nostro percorso ha a che fare con la nostre teorie e con la nostra prassi clinica. Ha cioè a che fare con le icone incorporate in noi, cioè sul come parliamo, come vestiamo, come il nostro corpo mostra cioè vive l’essere psico-professionisti, sul “genius loci” dei nostri studi, sulla nostra scrittura dei casi clinici perché tutto, ma proprio tutto ciò, ha a che fare con l’habitus nel quale siamo immersi e con la violenza simbolica che quotidianamente subiamo e facciamo subire ai nostri pazienti. Certo abbiamo la super-visione ma penso ad un’extra-visione, un’esa-visione come ad un’operazione rielaborativa oggi essenziale. Una visione dall’esterno dei nostri inconsci esternalizzati, non certo una visione paranoica come è nuclearmente paranoica e psicotizzante la programmazione neurolinguistica, ma una visione del nostro mondo di appartenenza, del nostro ineliminabile habitus, delle nostre “credenze psicoanalitiche”, dei nostri sogni magari non più nostri ma creati per noi, dei nostri deliri, magari di guarigione dal male, poco, pochissimo dissimili da quelli dei nostri pazienti. Penso ad una opposizione implicita, ad una opposizione costituzionale, ad un non adeguamento a stili sociali e societari invisibilmente violenti e totalitari. Penso ad una riedizione della cultura del sospetto, ad una nuova peste che infesti opponendosi questa “nuova normalità”. Penso ad una psicoanalisi che si opponga alla psicoanalisi, credo, posso ancora avere fede in una teoria psicoanalitica che davvero si divori ma soprattutto nei singoli divoratori di teorie. Se il nostro compito è quello di offrire ai nostri pazienti un’emancipazione dalla prigionia di sistemi culturali poco opportuni per loro stessi, cioè da ciò che definiamo psico-patologia, credo sia di vitale importanza che noi si presti attenzione a non sostituire quel sistema culturale con un nostro sistema culturale in noi inevitabilmente incorporato all’interno dell’interno dell’interno del nostro inconscio cioè costitutivo di noi stessi.

In questo senso penso che noi si abbia il dovere di continuare a sperare di non capire, di non sapere già qual’è il metodo per produrre e soprattutto per riprodurre industrialmente una cura. Bauman[17] conclude il suo scritto sulla paura liquida parlando di speranza affidata ad un messaggio in una bottiglia lasciata alle onde del mare. Speranza che qualcuno trovi la bottiglia, che qualcuno legga il messaggio e lo diffonda. Credo che noi, noi psico-curanti, si debba riuscire a non scrivere nulla su quel foglio ma magari aggiungere nella bottiglia anche una penna per lasciar scrivere un’altra storia, per aiutare i nostri pazienti a sognare i propri sogni e non i nostri.

Note e bibliografia

[1] Wikipedia, L’enciclopedia libera, 2009: la voce« violenza simbolica» è scaricabile dal sito:

http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Violenza_simbolica&oldid=26698347.

[2] Bourdieu P., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 2009.

[3] Lasègue C., J. Falret, La folie à deux ou la folie communiquée, «Annales médico-psychologiques», 18, Paris, 1877, pp. 321-355.Annales medico-psychologiques, Paris,

[4] Bion W. R., Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971.

[5] Dupuy J. P., Piccola metafisica degli tsunami, Donzelli, Roma,. 2006.

[6] Galimberti, U., Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p.559

[7] Arendt H., Le origini del totalitarismo, Einaudi 2004, p. 628.

[8] Terenzi P., Per una sociologia del senso comune, Rubettino, Soveria Mannelli (Cz) 2002, p.186.

[9] Neiman S., Evil in modern thought, Princeton University Press, Oxford 2002, p. 240.

[10] Lyotard J. F., La condizione post-moderna, Feltrinelli, Milano 1985.

[11] Marcuse H., L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967.

[12] Virilio P., L’universalità del disastro, Raffaello Cortina, Milano 2008.

[13] Maffesoli M., Icone d’oggi, Sellerio, 2009.

[14] Riva M.., Nuova normalità e nuovi casi, in Cerabolini R., Comelli F. (a cura di), La cura del contesto nel disagio psichico. Contributi per un allargamento del campo terapeutico, Quattroventi, Urbino 2006.

[15] Baudrillard J., Le strategie fatali, SE, Milano 2007.

[16] Gibson W., Guerreros, Mondadori, Milano 2008.

[17] Bauman Z., Paura liquida, Laterza, Bari 2008.

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