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Nuova normalità, nuovi casi

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Nuova normalità, nuovi casi

M. Riva, M. Laviani, R. Resega

in: La cura del contesto nel disagio psichico. Quattroventi ed. Urbino 2006.

 

 

Premessa

“La comprensione come tale non porta alla spiegazione causale, ma vi giunge urtando contro l’incomprensione”. K.Jaspers, Psicopatologia generale, Parte II

 Questo lavoro nasce dalla clinica, dalla quale questa ipotesi di lavoro deriva per deduzione, e dalla ricerca di un metodo scientifico al quale questa progetto tende per induzione attraverso l’analisi e la rielaborazione dei saperi sulla psiche a noi noti.

Le nostre competenze, relative alla terapia di varie “configurazioni” psicopatologiche, derivano dalle nostre esperienze in vari contesti psichiatrici e psicologici dell’Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli di Milano quali il Servizio di diagnosi e cura, il Centro per la diagnosi e la terapia dell’ansia e della depressione, l’Ambulatorio di psico-oncologia,  e la Psichiatria di “collegamento”.

Il progetto nasce anche da una nostra sensazione di inadeguatezza cioè di arretratezza delle attuali teorie psicopatologiche, delle prassi (diagnostico-terapeutiche) ad esse connesse e delle strutture nelle quali operiamo. Un’arretratezza (nostra) rispetto ad una realtà clinica e antropologica oggi paradigmaticamente differenti da un passato anche recente. Nella pratica clinica oggi “incontriamo” infatti casi clinici nuovi rispetto ai quali le nostre competenze ci appaiono, sempre più frequentemente, come non sufficienti.

Constatata tale arretratezza abbiamo anche ripreso contatto con le nostre competenze teoriche ed esperienziali e abbiamo provato a rielaborarle confrontandoci in un lavoro comune verso un “oggetto” teorico e pratico, diagnostico e terapeutico, psicopatologico e psichiatrico pensato per essere una nuova ipotesi di riferimento.

In questo percorso abbiamo incontrato nuove teorie sulla psiche, come la neurofenomenologia (Varela), ma anche importanti e paradigmatiche evoluzioni di teorie e prassi non recenti come quelle psicoanalitiche (Ferro, Gaburri) e cognitive. Correndo il rischio di avere a che fare con la confusione (babele dei linguaggi) abbiamo cercato e ipotizzato possibili comunicazioni tra i saperi sulla mente.

Introduzione

“la cosa che più importa all’uomo moderno non è più il piacere o il dispiacere ma l’essere eccitato”. Nietzsche,F.(1888): “Ecce homo”.

Generalmente vengono proposte tre modalità di considerazione della normalità (Lalli):

– La normalità statistica: identifica il normale con il più frequente. È normale ciò che è condiviso: se il range del possibile è descritto dalla campana di Gauss, il normale è rappresentato dall’intervallo intorno alla media.

– La normalità funzionale ovvero la salute mentale: definisce una condizione di coerenza interna all’individuo tra aspirazioni e scopi, da una parte, ed efficienza e adeguatezza nel perseguirli, dall’altra.

-La normalità ideale: è la norma del dover essere cioè indica a quale comportamento deve mirare l’individuo per manifestarsi nel suo stato di benessere; pone l’individuo in una condizione di aspirazione: misurato lo scarto tra quello che si è e quello che si dovrebbe essere non resta che

spingersi verso un limite in realtà irraggiungibile.

Ci siamo domandati quanto oggi a Milano la salute mentale (normalità funzionale) sia realmente la condizione più frequente. La “normalità statistica” milanese è sempre più caratterizzata dall’uso normale di televisione, di video giochi, di telefono (sms compresi), di giochi di ruolo, di sesso “da consumo”, di cocaina a “basso dosaggio”, di anfetaminici in discoteca, di gas butani e di cannabinoidi tra gli adolescenti. Questi fenomeni sono in evidente “continuum” con patologie manifeste e tipizzate quali le dipendenze da droghe classiche, da nuove droghe, da psicofarmaci, da alcool e dipendenze “without drugs” cioè da cibo, da acquisto, da gioco d’azzardo, da sesso, televisione, e internet.  Patologie queste, di fatto, in comorbidità con altre patologie quali i disturbi d’ansia, depressivi e i disturbi psicotici peraltro tutte sempre più correlate con i disturbi di personalità.  Nel percorso anche definitorio attorno a questi “nuovi” casi clinici abbiamo, di fatto, clinicamente incontrato la normalità. In questo senso è stato per noi fondamentale ritrovare il concetto di continuum di Kretschmer che “mostra” le sovrapposizioni tra i temperamenti normali, come schizotimico e ciclotimico, e quelli patologici come schizoide e cicloide.

In questo senso l’osservazione dei fenomeni clinici, cioè dei segni e dei sintomi, ci ha consentito di rimanere nel continuum, a nostro avviso evidente, che va dalla patologia conclamata alla normalità. Questo approccio dimensionale (Pancheri) ci ha di fatto indotto ad una ri-osservazione di segni (oggettivi) e di sintomi (soggettivi) stimolando in noi nuove domande finalizzate a formulare un punto di vista psicopatologico sotteso ad un senso cioè ad una teoria dei “fenomeni” della mente. Ovvero una teoria che, accanto alla a-teoreticità del manuali statistico e diagnostico dell’American Psychiatric Association, proponga l’individuazione di un senso e di una “provenienza” di un certo sintomo.

E’ per noi “soddisfacente” pensare al sintomo psichico come ad un prodotto della mente. Il sintomo è un modo utilizzato dalla mente, secondo un principio organizzatore, per trovare o ripristinare un ordine (mentale). La mente agisce secondo un principio di “sintropia” (Fantappiè), cioè tende, in ogni momento all’organizzazione, alla stabilità, alla creazione di strutture comunque orientate verso una qualche organizzazione.

In questo senso il sintomo è una “risposta” e rappresenta un elemento che contribuisce a riportare l’ordine cioè a tenere in piedi una determinata struttura mentale.

Si tratta, perciò, di guardare ai sintomi come elementi riorganizzatori che permettono una espressione psicologica e biologica “singolare” di una struttura di personalità  a sua volta psicologica e biologica (co-determinismo genetico), in continua relazione con l’ambiente (co-derminismo ambientale). La personalità-identità è caratterizzata da relazioni vincolanti: vincolo genetico e vita biologica, vincolo morfologico e relazioni, vincolo culturale e storia del popolo, vincolo familiare ed educazione e cultura, vincolo psichico e traumi ed esperienze infantili, e nostra visione del mondo. Tutto ciò è la nostra identità. Un nuovo vincolo è oggi sempre più presente, sempre più frequente, sempre più determinante la nostra identità ovvero il vincolo della Tecnica. E’ un vincolo che “ci ha trasformati in funzioni cioè le nostre esperienze non sono libere ma determinate da manuali ordinati secondo criteri di produttività ed efficienza” (Galimberti). Negli incontri con gli ambienti reali milanesi abbiamo incontrato normali, cioè frequenti personalità in grado di adeguarsi a ruoli, modelli, mode, di gestire stimoli e relazioni contemporanee in “multitasking”. Persone però deputate ad essere comunque “in ritardo gestionale” rispetto a quantità subentranti di stimoli, ovvero prigioniere di eccitamenti sempre necessari e obbligate in ripetizioni anancastiche.

Abbiamo incontrato i prodotti del marketing delle personalità, della competitività spinta, dei mutamenti dei ruoli di genere e degli equilibri familiari. Ovvero i prodotti di un funzionalismo spinto, quali i “format” comportamentali, che sono in grado di stimolare una cronica inadeguatezza cioè un’autostima costantemente bassa.

Questi “mansionari esistenziali”, in quanto tali, implicano l’inadeguatezza di qualcuno, implicano cioè l’esistenza di individui non adeguati che devono essere “addestrati” al compimento di funzioni più o meno complesse. Il mansionario e il conseguente addestramento mostrano l’inadeguatezza del pensiero privato del singolo individuo. Il mansionario di fatto “produce” inadeguatezza dell’individuo.

 

La normalità dell’angoscia

Proviamo a limitarci ad una osservazione del presente, limitando al minimo le possibili citazioni. Esiste una differenza sostanziale tra società ed individuo ed il concetto fondamentale è quello di intendere la società come unione ed interazioni tra liberi individui. In realtà, non è così. L’imposizione che spesso si sente, oggi, nel mondo del lavoro è “produrre”. Ma produrre cosa, giacché di prodotti ce ne sono fin troppi? Non bisogna in realtà produrre ma bisogna vendere. Quindi per vendere bisogna produrre compratori. Per produrre compratori, si devono creare bisogni e se quelli elementari sono già saturi, bisogna crearne altri, possibilmente con una buona premessa di allarmi e terrorismi mediatici che alzino il livello della paranoia e dell’angoscia. Arriverà poi qualcuno a venderci un prodotto “rassicurante” sotto le più svariate forme. Era la forza dei “medicine show” dei tempi del Far West che vendevano pozioni ai babbei, girando di borgo in borgo. La presenza di un sentimento indispensabile ma difficilmente controllabile, l’angoscia, porta spesso l’individuo a mettere in atto una serie di sistemi di difesa. Intesa come risposta ad una minaccia percepita dall’Io, l’angoscia è al tempo stesso strumento di creazione di

pensiero e quindi di evoluzione, oppure pericolo subitaneo inarrestabile da scacciare anche
rifugiandosi nel gruppo. Herbert Marcuse sosteneva che si vive in una confortevole, levigata,
ragionevole, democratica non libertà che prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. Le capacità intellettuali e materiali della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è  più grande di quanto sia mai stata.

Modelli alternativi si sono rivelati fragili e sostanzialmente inaffidabili, forse perché troppo fondati su un’ideologia che ha finito col sopprimere le idee. L’immaginario superegoico agisce la repressione dell’Io politico economico (Weber), sociale (Marx) e psichico (Freud). L’alternativa possibile passa attraverso un sentimento controverso quale la consapevolezza, con tutti gli addebiti che questo comporta in termini di tolleranza dell’angoscia. Se, come riteneva Kierkegaard, l’angoscia è frutto dell’infinità di scelte che la vita offre, è solo la consapevolezza che può guidarci; e questa non può non passare attraverso la conoscenza di un Io, di un Sé (Kohut) e la conseguente formazione di “pensieri”. Altrimenti, come risposta alla minaccia significata dall’angoscia, la gente fa ciò che “deve” fare (Fromm), ciò che viene detto di fare, ciò che normalizza e normalizza. Una delle più frequenti domande poste allo psichiatra è “cosa devo fare?”, con l’errore originale di considerare tout-court la scienza come garante di un comportamento corretto, abolendo qualsiasi capacità di critica e di giudizio ed affidando tutto ad un super-io giudicante (sociale) supremo.
L’adesione totale al “fare”, sorpassando il pensiero, genera un monoteismo laddove la “banalità del male” rischia di non tener più conto che bene e male possano dipendere da semplici punti di vista.
La normalità di Eichmann è molto più terrificante di tutte le atrocità commesse (Hannah Aarendt).

 

La “filosofia dell’emergenza”

Nella nostra ricerca teorica finalizzata alla individuazione di fattori comuni e definitori di questi “nuovi casi”, abbiamo innanzitutto cercato un punto di vista, cioè una filosofia della mente (e l’approccio psicopatologico a questa sotteso) che potesse risultare per noi “soddisfacente” per una lettura della nostra realtà sociale. Una filosofia della mente che non contemplasse “solo” la mente, ovvero un punto di vista ipoteticamente non de-contestualizzante la mente dal cervello, dall’ambiente, dalla storia e dal tempo. In questo nostro percorso abbiamo incontrato la “filosofia dell’emergenza” (Varela).

”Emergenza” è una nozione della fisica che proviene dall’osservazione delle transizioni di fase o transizioni di stato, ovvero di come si passa da un livello locale a un livello globale, una nozione che definisce la comparsa e l’esistenza dei cosiddetti sistemi “complessi”. Un insieme di molecole può diventare una cellula, un ammasso di cellule improvvisamente diventa un organismo, un insieme di individui può diventare un gruppo sociale, una relazione empatica configura stati emotivi “anche” caratterizzati da assetti neurochimici e dalla loro inferenza nel ciclo. Il concetto di emergenza mostra l’esistenza in natura di processi, retti da regole locali, che, messi in condizioni appropriate, danno origine per “autopoiesi” a un nuovo livello a cui bisogna riconoscere una specifica e nuova identità. La comparsa, l’emergenza di questo nuovo livello avviene, nei sistemi complessi, per auto-organizzazione (Maturana) Vi cioè un margine di imprevedibilità come se il livello “emerso” possedesse un meccanismo in grado di programmare nuove funzioni (ovvero nuove capacità di interagire con l’ambiente). La prevedibilità è invece relativa ai fenomeni non complessi ma complicati come le macchine.

Nella visione delle neuroscienze cognitive (Varela) l’origine dell’identità ontologica chiamata mente è in quella serie di interazioni, di accoppiamenti con il mondo, che fà emergere il livello transitorio di un aggregato, mettendoli insieme in una unità coordinata che è appunto l’identità cognitiva cioè la coscienza.

Questo punto di vista propone lo studio della coscienza, quale oggetto complesso “emergente” da più interazioni. Parlare di coscienza è provare a descrivere un oggetto “dinamico” e non statico, dove l’elemento tempo è un fattore costitutivo. Una definizione: la coscienza è una funzione psichica che comprende un elemento riflessivo, la consapevolezza del proprio essere e della propria realtà psichica e uno integrativo per cui le varie realtà psichiche (desideri, pensieri, idee, sentimenti, ecc.) di cui l’individuo è conscio in un dato momento sono vissuti e avvertiti come un tutto organico alla base dell’unità dell’individuo stesso, separate dal mondo esterno e che si evolvono nel tempo (La coscienza in psichiatria: Wikipedia 2006)

Le neuroscienze cognitive e in particolare il connessionismo ci mostrano come la coscienza non sia solo un fascio di neuroni (il vissuto in quanto tale è per principio logicamente ed empiricamente irriducibile a una funzione neuronale) ma un fenomeno assai più “complesso” con uno statuto non  spiegabile in esclusivi termini di sistema neuronale. Il cervello rappresenta la “condizione di possibilità” (Whitehead) del fenomeno dinamico “mente”. La coscienza è cioè un fenomeno e non un oggetto concreto la cui “apparizione” è legata all’esistenza di un sistema nervoso centrale che è innanzitutto situato e accoppiato ad un  corpo (che si autoregola è cioè impegnato essenzialmente nella propria nutrizione e nella conservazione di sé), questo insieme è a sua volta costantemente in interazione, in accoppiamento con il mondo esterno attraverso una superficie senso-motoria, e infine un terzo tipo di relazioni-accoppiamenti, quelle cioè tra congeneri ovvero l’empatia. Per tutta l’esistenza di un individuo non è possibile separare la vita mentale, la coscienza, dai cicli costanti prodotti dalle interazioni empatiche socialmente mediate. La coscienza è allora il prodotto di interazioni col mondo e compare, “emerge” solo grazie a una serie di accoppiamenti. La sua esistenza non ha un locus, una costante collocazione spazio-temporale. E’ una identità puramente relazionale che esiste solo come pattern relazionale e non di sola esistenza sostanziale e materiale. Il pensiero che tutto quello che esiste debba avere esistenza sostanziale e materiale è il modo di pensare più antico della tradizione riduttivistica, una “una concretizzazione inopportuna” (Whitehead).

Dunque qualcosa di necessariamente decentrato che non si svolge unicamente nel cervello ma in un ciclo. Pertanto la coscienza è un’emergenza che richiede l’esistenza di questi tre fenomeni o cicli: con il corpo, con il mondo e con l’altro. I fenomeni di coscienza sono fenomeni distribuiti e possono esistere solo nel ciclo, nel decentramento che esso comporta. In tutto questo, evidentemente il cervello ha un ruolo centrale, perché esso è la “condizione di possibilità” della emergenza della coscienza.
Come in tutti i processi emergenti non ha senso definirne “una” localizzazione costante nel tempo. Se da un lato un gruppo di neuroni in interazione con il mondo danno origine a una identità cognitiva, dall’altro, come in tutti i processi di emergenza naturale, una volta che ha avuto luogo l’emergenza di una nuova identità, questa identità ha degli effetti, ha delle ricadute  (causalità bi-direzionale), sulle componenti locali o inferiori. La coscienza non è un semplice epifenomeno dell’attività cerebrale ma un’emergenza che può avere un’azione diretta sulle componenti locali come cambiare gli stati di interazione sinaptica tra neuroni Goldapple et al. Il rapporto bi-direzionale tra ciò che emerge e le basi che ne rendono possibile l’emergenza, impone di fare una descrizione completamente diversa della coscienza come parte intrinseca alle dinamiche del mondo.

Da tale esame si inferisce che la maggioranza degli studiosi di emergenza contemporanei considera “emergente” ogni fenomeno naturale:

  1. a) associato a (il funzionamento di) un sistema complesso che evolve nel tempo;
  2. b) avente contemporaneamente le seguenti proprietà: 1) novità, cioè descrivibilità mediante un linguaggio qualitativamente diverso da quello utilizzato per descrivere il sistema e le sue componenti; 2) origine “dal basso all’alto”, cioè genesi dovuta esclusivamente alle interazioni locali tra le componenti del sistema; 3) imprevedibilità, cioè non-linearità delle equazioni che descrivono tali interazioni locali; 4) irriducibilità, cioè totale indipendenza dalle singole componenti del sistema.

Pertanto la coscienza, pur non essendo “localizzata” nel cervello, necessita comunque del sistema nervoso centrale che ha la caratteristica di essere plastico cioè di modificarsi adattandosi e inducendo i cambiamenti dell’ambiente (del resto del corpo e dell’ambiente esterno).

E’ altresì il prodotto di una storia ovvero di un’origine biologica (e prima genetica) e di adattamenti o di disadattamenti ad “incontri” avvenuti nell’infanzia e nelle epoche successive.

Conseguentemente a tutto ciò la coscienza dell’osservatore deve oggi essere considerata sia lo “strumento scientifico” adeguato alla studio (all’osservazione) della coscienza dell’altro, sia un elemento “costitutivo” della coscienza dell’altro. La fenomenologia, ovvero il metodo “in prima persona” è lo strumento di lavoro per lo studio scientifico di questioni cognitive, metodo capace di prendere in considerazione i dati del proprio vissuto personale necessari a qualsiasi sperimentazione scientifica.

 

 

Psicopatogenesi

“L’impazienza sopprime l’essere, il tempo e gli altri. Noi dobbiamo ritrovare il senso dell’essere, del tempo e delle differenze”. Paul P. Gilbert, 1995

L’osservazione dei sintomi come “emergenze” psicopatologiche, ovvero come specifiche configurazioni dell(e) ansie, dell(e) depressioni e dei nuovi e vecchi abusi e dipendenze, ci ha permesso di ipotizzare la presenza di “fattori comuni” sottesi a queste emergenze.

 

  1. Aspetti fenomenologici comuni

C’è un “esserci” che accomuna i “nuovi casi” ovvero c’è un esserci che viene meno. Che ha meno spazio, la persona non è più unica perchè cosificata quindi sparita nella molteplicità  degli enti quali prodotti “virali” della quantificazione del mondo cioè della scomparsa dell’ignoto. Oggi l’uomo “deve essere” connesso, omologato, gruppalizzato, protesizzato, “deve” cioè fare riferimento a modelli più o meno complessi (format) sempre più diffusi. Scompare la “differance” di Derrida.

Il postmoderno in cui viviamo, o che viviamo, o da cui siamo vissuti, a seconda delle espressioni linguistiche che vogliamo scegliere, è caratterizzato dall’ oblio della differenza originaria tra l’essere e gli enti, la differenza ontologica viene soggiogata alla differenza ontica. L’essere, il cui senso nella storia della metafisica è andato perso a favore del dominio degli enti sottomano (la tecnica), è essenzialmente il venire alla luce nella radura, il diradarsi nella radura,  a-letheia, svelar-si, die  Wahreit = la verità, die Heitere = la schiarita, das Heiternde = il diradante, das Lichtende = il venire alla luce, secondo l’etimologia heideggeriana. Il tempo non geometrico della percezione che non accade più, il tempo non lineare del pensare diviene il tempo minore possibile soffocato dalla velocità delle realizzazioni sempre più possibili, a portata di mouse, di telecomando, comunque di ottenimento di qualche cosa (di “qualsiasicosa”). L’essere per essere tale deve oggi cosificarsi nell’agire. Grazie alla Tecnica questo agire è oggi soddisfatto dalla diffusione dei prodotti appunto di consumo vera moltiplicazione “finale” degli enti. L’essere-nel-mondo risulta fissurato: noi non siamo-nel-mondo ma siamo consumatori del mondo…anzi dei fantasmi mediatici del mondo”. Cadono le distinzioni tra pubblico e privato e dunque tra esteriorità ed interiorità. La singolarità dell’individuo (apparenze fenomeniche) è sostituta dalla fenomenicità delle merci-individui comunque pubblicitarie con conseguente metamorfosi dell’individuo riconoscibile solo come merce es-posta: l’identità residua nella sua es-posizione. Se non mi es-pongo in un’appartenenza, in un legame comunque funzionale, non esisto. Posso esistere in quanto funzionario.

Il tempo lineare (storico) tende ad essere sostituito dal “tempo reale” (tempo ottimizzato): il tempo dell’attesa, il tempo del pensare e dell’essere pensati sparisce. Questo “tempo reale” (peraltro totalmente irreale) della acquisizione  immediata, ovvero della “mondanizzazione”( Heidegger), dell’incontro con l’ente lì di passaggio è opposto al tempo del desiderio e delle idee e svuota di significato i contenuti dei discorsi: l’immediatezza cancella il senso, la velocità azzera il vedere.

Gli Dei non parlavano né scrivevano, ma con un semplice cenno, indicavano, svelavano l’originario, la differenza ontologica e non ontica. Oggi questi Dei sono scomparsi sostituiti da divinità-feticcio già piene di significati finiti cioè le merci.

 

 

  1. Aspetti psicodinamici comuni

L’individuo “addestrato” ad essere continuamente dipendente da relazioni sociali standardizzate e ruoli stereotipati è esposto a sentimenti di inadeguatezza, inutilità e vuoto esistenziale, è esposto cioè all’angoscia. Questa dipendenza dagli oggetti, se ripetitivamente indotta, si oppone in quanto tale alla elaborazione delle separazioni e impedisce così la crescita e l’autonomia mentale. Il sé non è a rischio di frammentazione (struttura borderline) né di confusione tra mondo interno e mondo esterno (struttura psicotica) quanto è invece costantemente esposto a timori di rotture di relazioni narcisistiche. Tale struttura “narcisistica” emerge da storiche e ripetute relazioni non-empatiche quali sono quelle mediate dai linguaggi “funzionali” della tecnica e del mercato.

La fisiologica “posizione depressiva” (Klein) non può essere raggiunta ed elaborata in relazione a costanti sentimenti di frustrazione relativi alla propria inadeguatezza. Attraverso l’accondiscendenza ai modelli disponibili (feticci, modi di fare, mode…) possono essere accumulate un insieme di relazioni non “immaginate” ma già date ed al posto dell’elaborazione vi è la ripetizione automatica di schemi. L’impedimento all’attività simbolica (o di pensiero) implicito in questo “sistema imitativo” o mimetico, comporta un sovraccarico di eccitamenti istintuali, i quali possono esclusivamente essere “espulsi” in azioni  ripetitive.

La possibilità di pensare, cioè la possibilità di elaborare le emozioni e di formare legami simbolici, è impedita o ridotta e sostituita da “qualcosa di segno opposto” al pensiero. Questo “opposto” al pensiero, che è rappresentato dall’adeguamento al feticcio ed al rituale sociale, caratterizza il funzionamento di menti addestrate ad essere bisognose di “qualsiasicosa”. E’ questa un’attività apparentemente somigliante al “pensare” dove i modelli possono essere acquisiti ma non elaborati, sono “modi di fare” costanti e ripetitivi e sostituibili da altri modelli. Questa attività descrive il concetto bioniano di –K.

Il continuo adeguamento a relazioni già pre-costituite, determina la ripetizione continua di schemi ovvero l’automatismo tipico della macchina: “ l’esperienza emotiva non è disponibile per l’evoluzione di una nuova idea, nei fatti viene soffuso un significato già elaborato che spesso richiede una distorsione dei fatti perchè essi vi si adattino”. Si determina quello che Meltzer chiama un “autoinganno”cioè il prodotto di operazioni difensive aventi lo scopo di padroneggiare la realtà. Le modalità relazionali sono caratterizzate da compiacenza e imitazione. L’individuo “diventa proprio come la madre, la baby-sitter, la zia, il fratello o qualsiasi  persona che in quel momento avrà dominato la scena” (Winnicott) ovvero diventa egli stesso un’icona.

L’individuo non sviluppa le proprie potenzialità ma si conforma, o quantomeno cerca continuamente di adeguarsi  alle aspettative, alle pressioni ed alle intrusioni del mondo esterno. Funzione alfa. Queste personalità tendono a confondersi con oggetti desiderati, con tratti di identità non loro, con fantasie di possibilità di esser altro da quello che sono. In altre parole, il soggetto che guarda si fa tutt’uno con l’oggetto guardato, tenta di imitarlo, di essere come quell’oggetto o di acquisire un valore potenziale solo grazie al fatto che lo possiede: l’oggetto rappresentato diviene un modo d’essere, un modello o una moda precostituita ma avvertita come espressiva, spontanea e naturale.

“La vita dell’individuo sarà caratterizzata da sensazioni di irrealtà o di futilità, gli impegni culturali, soprattutto in senso creativo, saranno banditi e sostituiti da irrequietezza e dal bisogno di accumulare stimolazioni dalla realtà esterna per poter riempire il proprio tempo di vita reagendo a questi stimoli” (Winnicott). Di fatto queste modalità relazionali “imitative-adesive” (E. Bick), immediate e ripetitive comportano una costante inadeguatezza del sé. Conseguenze frequenti sono il disinvestimento, la chiusura e il ritiro, termini che configurano la “depressione narcisistica, cioè il connubio fra la depressione come la si intende normalmente (la tristezza) e il calo dell’autostima” (Charmet). Il ritiro affettivo, l’incapacità di mantenere relazioni affettive, l’anestesia etica, si manifestano sul piano clinico con una  “percepibile” difficoltà all’espressione dei propri contenuti emotivi cioè con quella condizione definita alexitimia. Questo concetto, coniato nel 1972 da Sifneos ha molti punti in comune con il termine di “penseè operatoire” coniato nel 1963 da De M’Uzan M. e  Marty P. che esprime una deficienza nella elaborazione cognitiva delle emozioni, cioè una difficoltà alla simbolizzazione e una tendenza ad agire impulsivamente.

Di fatto l”elemento” costantemente presente è a nostro avviso costituito da una dipendenza “arcaica” dagli oggetti cioè da oggetti,  persone, istituzioni, sostanze, modelli ovvero da “qualsiasicosa”. Questo “qualsiasicosa” non è caratterizzato dalla desiderabilità e quindi da un percorso anche frustrante e quindi formativo-maturativo per la mente (soggetto desiderante), ma dal bisogno imperativo di quella cosa che deve essere disponibile pena l’astinenza (soggetto bisognoso).

Questo tipo di individuo ” incapace di usare simboli, irrequieto, bisognoso di ricercare stimoli continui nella realtà in modo da poter riempire la propria vita reagendo ad essi “, somiglia o forse è l’uomo post-moderno descritto da Virilio che: ” cronicamente eccitato dalle immagini veloci esige un sovrappiù di eccitazione ” e somiglia o forse è l’uomo moderno di Nietzsche: ” la cosa che più importa all’uomo moderno non è più il piacere o il dispiacere ma l’essere eccitato”.

 

 Clinica

“Imparare a vedere e a descrivere ciò che sta dinanzi agli occhi esige studi speciali e faticosi” (Husserl, 1954).

Vi è stato in questi anni un aumento crescente di richiesta di aiuto psichiatrico (prescrizione di psicofarmaci, richieste di psicoterapia) da parte della popolazione di Milano. Una importante caratteristica di queste richieste è, innanzitutto, quella di un loro difficile inquadramento diagnostico. La sintomatologia spesso non corrisponde ai criteri minimi richiesti per una diagnosi categoriale secondo i criteri operativi richiesti dal DSM IV R. La psicopatologia, interrogandosi su questi fenomeni, ha teorizzato e configurato le  patologie “subsindromiche” o patologie “sottosoglia”. Questi “disturbi sottosoglia” ripropongono il limite tra patologia e normalità ma a nostro avviso, nell’avvicinarsi alla normalità-salute, le diagnosi categoriali dell’American Psychiatric Association tendono a non essere utilizzabili. Le categorie diagnostiche vengono “moltiplicate” cioè combinate tra loro sino alla produzione di “frankenstein” diagnostici, quali le comorbidità multiple, che esprimono l’inadeguatezza di questo tipo di approccio per una eterogeneità clinica complessa. E’evidente che più alta è la comorbidità, più si abbassa la validità dell’intero sistema diagnostico e al contempo la vera comorbidità è anche concettualmente eccezionale in quanto essa definisce una co-occorrenza di sindromi in toto. Succede invece di incontrare “overlapping” di set criteriali ovvero sintomi trasversali alle varie sindromi.

I cosiddetti “modelli dimensionali” (Pancheri) risultano, a nostro avviso, essere una possibile risposta che permette al clinico di “orientarsi” meglio. Numerose pubblicazioni sono oggi disponibili sull’analisi dimensionale per componenti principali di psicopatologia. Queste componenti principali, che sono identificate come “dimensioni psicopatologiche”, hanno un carattere “transnosografico” e sono quantificabili. La diagnosi dimensionale individua il differente “peso” delle specifiche dimensioni psicopatologiche che caratterizzano quel paziente. È, per esempio, un dato comune nella pratica clinica riscontrare un elevato “peso” della componente depressiva in molti soggetti schizofrenici o, ancora, della componente “distorsione della realtà” in soggetti con depressione.

La principale caratteristica, o elemento comune che sottende i nuovi casi è la condizione psichica di inadeguatezza che si “esprime” fenomenicamente con  vari sintomi psichici.

Abbiamo individuato due gruppi dimensionali:

 

  1. mancanza di empatia, depressione narcisistica, ansia-angoscia (sintomi principali)
  2. dipendenze da “qualsiasicosa” (sintomi secondari)

Strutturalmente i “nuovi casi” sono una modalità caratteristica di funzionamento mentale attivabile oggi in situazioni diverse in ogni individuo. Sono configurazioni ontologiche dell’essere, cioè specifiche condizioni esistenziali, ovvero strutture dinamiche, che accompagnano e permettono e premettono la comparsa di sintomi. I sintomi, cioè le evidenze fenomeniche, sono innanzitutto caratterizzati dalla costante circolarità o rinvio tra il vuoto alexitimico (sintomi principali) e i tentativi di ripristino dell’omeostasi (le dipendenze o sintomi secondari). Appaiono o “emergono” regressioni da bisogni non evoluti e, per usare una terminologia nosografica, si configurano “Sindromi da bisogno cronico”.

Sono soggetti che spesso presentano un comportamento normale nei confronti della realtà, mentre hanno disturbi a carico sia del  pensiero che dell’affettività. In questi soggetti il pensiero tende ad essere di tipo dereistico e l’affettività carente o assente il che comporta un normale rapporto con la realtà materiale a fronte di una serie di difficoltà nei rapporti interumani.

Il tratto caratteristico è, infatti, l’indifferenza, che esprime la dinamica di annullamento della realtà umana ed è il prodotto di una tendenza alla omologazione ad un qualche ruolo (role taking). Questi soggetti sono in grado di adeguarsi ai vari ruoli (di qualsiasi tipo) ma sono incapaci di cogliere e soprattutto di vivere le differenze dagli altri cioè di relazionarsi empaticamente con gli altri. Tende a costituirsi una visione della realtà piatta, operativa, funzionale grazie all’uniformarsi alle regole esteriori cioè ad un qualche tipo di formalità. L’alexitimia, cioè l’incapacità a riconoscere le proprie emozioni, e la mancanza di empatia ovvero la difficoltà a mettersi nei panni dell’altro sono gli elementi costantemente sottesi.

La differenza tra role taking ed empatia è nell’essere, quest’ultima, un’esperienza affettiva: l’empatia è prima di tutto una reazione emozionale, uno stato di risonanza congruente con le emozioni dell’altro, è sentire ciò che l’altro sente, è: “la capacità di immedesimarsi con gli stati d’animo e con i pensieri delle altre persone sulla base della comprensione dei loro segnali emozionali, dell’assunzione della loro prospettiva soggettiva e della condivisione dei loro sentimenti” (Bonino). Suo aspetto peculiare è l’attivazione emotiva (Hoffman), senza la quale non si parla di empatia ma di role taking.

Con il termine depressione narcisistica Charmet e Resnik descrivono configurazioni caratterizzate da sintomi depressivi sottesi e determinati da un calo dell’autostima ovvero da sentimenti di inadeguatezza e di vergogna. In questi soggetti la relazione con l”altro” è funzionale (role taking) e non un sentimentale (empatia) pertanto la fisiologica soddisfazione del narcisismo può avvenire solo in continui, e in quanto tali impossibili, adeguamenti funzionali all’altro. L’esito frustrante di questo tipo di relazioni è appunto la depressione narcisistica. Sono stati depressivi frequentemente “mascherati”  ovvero caratterizzati da manifestazioni di accidia, di scontentezza e talvolta da accessi di  micromaniacalità. (Rossi)

In sintesi il connubio tra la depressione come la si intende normalmente (la tristezza) e il calo dell’autostima definiscono la”depressione narcisistica” dove la colpa, che tipizza la qualità del vissuto depressivo “classico”, è sostituita qui dalla vergogna (Charmet). Tale condizione esistenziale e patologica che emerge in seguito alla frustrazione tende ad alternarsi circolarmente con il tentativo di riassumere nuovi elementi o mezzi o pretesti per ri-trovare un aggancio alla realtà idealizzata. Il fallimento pregresso dei tentativi di adeguamento funzionale all’Altro provoca, se non mentalizzato, lo stato depressivo suddetto e successivamente una condizione di ansia o angoscia quando lo spazio del ritiro viene nuovamente investito da una fittizia spinta vitale non ordinata. L’insuccesso tende quindi ad essere illusoriamente superato nella mente del soggetto attraverso adeguamenti comportamentali adesivi ovvero non-scelte, ovvero  rapide e immediatamente attuabili, spesso con livelli sempre più alti di rischio lesivo (psichico o fisico). La ricerca o l’incontro casuale con oggetti percepiti come potenzialmente utili al soddisfacimento del proprio bisogno pare essere la premessa della categoria qua descritta dei sintomi secondari: ovvero l’area cosiddetta delle nuove dipendenze.

 

 

Sintomi secondari: le nuove dipendenze

E’ bene intendere fin dall’inizio la categoria delle dipendenze, ovvero i sintomi secondari,  come una conseguenza comportamentale altamente probabile dei sintomi primari.

Se si presuppone che un individuo sia per sua natura umana teso ad un processo aperto di acquisizione e crescita (teoria dei sistemi aperti), è altrettanto coerente pensare che laddove il suo sistema applica meccanismi  di chiusura o inibizione, si stia verificando un’attività di impedimento ad un percorso evolutivo.

Quando  i tentativi di adeguamento funzionale all’altro appaiono sempre più insostenibili e perciò slatentizzanti aree di angoscia esistenziale, l’individuo ricerca rapidamente nel mondo esterno elementi compensatori e protesici che possano, illusoriamente, sostituire e vicariare gli oggetti precedentemente perduti della relazione. Considerando le posizioni di  Fairbairn e Sullivan,  per i quali l’individuo è, per sua natura, sociale e radicato in una posizione interattiva,  si deduce ulteriormente che l’essere umano è mosso dalla motivazione al mantenimento del legame con l’Altro/oggetto. La ricerca del piacere si traduce in una ricerca dell’oggetto che risulta necessario per stabilire e mantenere i rapporti con gli altri. Questo spiegherebbe certe condizioni di masochismo e dolore, come unica modalità di mantenimento del contatto con l’altro.(Mitchell)

Recuperando la categoria dei sintomi primari in cui il fallimento dell’adeguamento perfetto all’altro minaccia potentemente il legame con esso, è possibile avanzare l’ipotesi che l’assenza di un processo elaborativo di una possibile frattura, possa produrre comportamenti impulsivi e incontrollabili fortemente caratterizzati dalle dipendenze.

Mentre l’attaccamento individua normalmente un comportamento primario teso al mantenimento della prossimità con una figura preferenziale, la dipendenza ne è un derivato che può non essere diretto verso un oggetto specifico ma che si esprime attraverso atteggiamenti generalizzati alla ricerca di conforto, rassicurazione e conferme (Lingiardi). Secondo le teorie dell’Infant Research che propongono la capacità di autoregolazione e la regolazione relazionale reciproca come interagenti per tutta la vita, si deduce che la patologia emerge allorché l’oscillazione dialettica tra le due regolazioni rimane inibita. La dipendenza patologica, da questo punto di vista, può essere pensata come una relazione in cui il soggetto dipendente è vincolato a una perenne regolazione sull’altro, mentre risulta incapace di regolare da solo gli stati del Sé.

La diffusione dei fenomeni comportamentali di Addiction, caratteristica degli ultimi decenni, ha mostrato una gamma sempre più ampia di ricerca e fruizione incontrollata (incontrollabile) degli oggetti da cui dipendere.

Una dipendenza è definibile patologica quando sono presenti: il craving, un pensiero ossessivo e continue preoccupazioni relative all’ottenimento della soddisfazione desiderata, il fatto di continuare la medesima condotta nonostante conseguenze negative sul piano fisico, psicologico, sociale o finanziario.  Il meccanismo difensivo che si riscontra trasversalmente nei fenomeni di dipendenza è la dissociazione. La dissociazione, secondo Young, è un processo inibitorio attivo, che normalmente esclude dal campo della coscienza percezioni interne ed esterne, volto a proteggere la coscienza ordinaria dall’inondazione di un eccesso di stimoli. Quando la parte scissa non si integra con quella che è a contatto con la realtà, si crea una condizione patologica di Altra parte, dei rifugi per la mente (Steiner), sempre più solidificata su comportamenti reiterati e compulsivi, necessari a proteggere dalle angosce della realtà. Questo spiegherebbe il passaggio, lungo il continuum, da comportamenti di dipendenza normale ad una patologica. Finchè il soggetto non integra le due parti, non ripropone al proprio mondo interno una lettura composta emozionale e cognitiva di bisogni e frustrazioni che si alternano in lui, ed è perciò probabile che avvenga un incistamento o ispessimento delle pareti psichiche di scissione orientate alla protezione dall’angoscia. A lato delle storicamente note dipendenze da sostanze che hanno rappresentato, fino agli anni Ottanta, categorie ben distinte e separate tra di loro, il cui oggetto di abuso specifico ne contraddistingueva una specifica personalità e presumibilmente terapia (tossici da eroina, cocainomani, alcolisti, bulimici..),  si sono manifestate, successivamente, comportamenti sempre più frequenti di uso/abuso misto di sostanze e, fenomeno ancor più recente, la dipendenza comportamentale e  la dipendenza da non sostanze detta anche tossicomania oggettuale. Appare quasi sparita la mono-dipendenza da unica sostanza, poiché sostituita da cosiddette poli-dipendenze in cui il livello quantitativo di abuso tende ad essere inferiore e in quanto tale non sempre sufficiente a raggiungere una soglia diagnostica attualmente disponibile. Lo schiacciamento orizzontale della scala quantitativa ha prodotto una distribuzione più allargata dell’accesso all’oggetto. Se si ripensa al concetto dell’angoscia come sintomo emergente dai fallimenti relazionali, è possibile dedurre che l’aumento sociale di fenomeni atti a provocarli, rende più allargato anche il raggio di percorrenza dell’angoscia e quindi della dipendenza come fenomeno difensivo per placarla.

Le dipendenze da droghe o da comportamenti hanno la capacità di creare stati di piacere e spesso euforia, ovvero di produrre alterazioni dello stato di coscienza ordinario, che alimentano quindi il comportamento dipendente. Il Craving sembrerebbe essere un’entità psicopatologica comune sia nella dipendenza da sostanza sia da comportamento, determinata da una forte attrazione verso alcune sostanze ed esperienze appetibili da comportare la perdita di controllo e una serie di azioni obbligatorie tese alla soddisfazione del desiderio, anche in presenza di gravi ostacoli o pericoli (Caretti, Di Cesare). Tra le nuove dipendenze è possibile individuare l’abuso di oggetti appartenenti ad aree diversificate.

Esistono dipendenze tecnologiche, quelle cioè che comprendono tutti gli oggetti e i mondi esistenti all’interno delle nuove tecnologie. Si contempla tra i tecnodipendenti l’ Internet Addiction Disorder (IAD) o Pathological Computer Use (PCU), e come sottocategorie di un mondo a cavallo tra realtà e virtuale sono presenti: gioco d’azzardo compulsivo online, cybersesso, cyber relazioni, eccesso di informazioni (information overload), porno dipendenza (foto e video su internet), trading online, shopping online, giochi di ruolo, videogames. La tecnica, che nasce come strumento utile all’uomo per favorire la pratica di determinate attività, diviene in questi casi il bisogno incoercibile e inevitabile dei suoi prodotti. L’acquisizione di libertà come premessa di una nuova schiavitù.

Vi sono poi le dipendenze da shopping, ove l’acquisto impulsivo e compulsivo di qualsiasicosa soddisfa in maniera transitoria dei bisogni, ma che risulta essere una manifestazione sintomatica di una cattiva regolazione degli affetti (Krueger). Si aggiungono poi le dipendenze da lavoro (work addiction), le dipendenze da discoteca, attività con perdita delle inibizioni (carnevali, raves),  attività rischiose e sport estremi (jumping con elastico, paracadutismo, sci fuori pista, corse in auto…), esercizio fisico intenso, bigorexia, stalking (molestie, minacce, pedinamenti, telefonate oscene), dipendenza dal partner (love addiction), dipendenza da persone carismatiche, gruppi o istituzioni, discontrollo degli impulsi (cleptomania, tricotillomania, piromania)

E’ altresì vero che la creazione di nuovi bisogni e il bombardamento sociale di tipo pubblicitario hanno sollecitato la nascita di nuove abitudini, ove la parola Dipendenza rischia un confine labile con quella di Moda. Abbiamo la dipendenza da programmi televisivi, fitcion e reality come “nutrimento” quotidiano: la vita altrui come ambizione di sé. La dipendenza da telefonino, da sms, da video-messaggi e da pendaglietti per cellulare. Incontriamo quotidianamente la dipendenza da aperitivo, da sushi, quelle da fotografie digitali, da riunioni di lavoro, da centri benessere e termali, le dipendenze da mp3,  e le dipendenze da logo. L’overlapping delle dipendenze coinvolge settori, oggetti e situazioni molteplici. Vi sono dipendenze e sotto dipendenze, ovvero oggetti specifici di una determinata categoria: dipendenza da bloody mary o campari, da brioche e cappuccino, quelle da scarpe a punta, quelle da “solo musica anni 70”, etc Il “sottosoglia” pare aver edificato un collegamento graduale tra le dipendenze da sostanze e non. Un uso limitato di cannabis o un’assunzione sporadica di cocaina non escludono nel soggetto altre forme di dipendenza di tipo oggettuale. Compare una sorta di scivolamento, un surfing libero e dinamico tra le diverse realtà, attingendo da esse quel che basta per continuare a muoversi. L’attività maniacale del dipendente è un movimento senza reale traguardi, ma con l’obiettivo unico rappresentato dal movimento stesso.

Il punto è, che lungo il continuum normal-patologico delle dipendenze, il filo rosso che collega i poli è rappresentato dall’impossibilità di fare a meno dell’oggetto, se non, in casi estremi, con profonda fatica. Tale inevitabilità infatti è sostenuta dal timore che la rinuncia all’oggetto rappresenti la perdita di un’appartenenza (sociale, sportiva, culturale, modaiola, amicale..) e la paura che questo implichi esclusione, restrizione delle possibilità, ovvero che generi quel senso di inadeguatezza tanto temuta.

 

Terapie

Così come abbiamo affrontato teoricamente la questione dei nuovi casi e della nuova normalità abbiamo ritenuto necessario far riferimento ad una metateoria “sulle” terapie sia farmacologiche che psicologiche.

Nucleo di ogni risposta terapeutica è la relazione. Questo enunciato è per noi premessa “scientifica” ad ogni prassi terapeutica ad ogni gesto finalizzato alla cura del paziente. Ogni  discorso terapeutico è strettamente connesso al punto di vista “ontologico” già precedentemente esposto. Il terapeuta deve avere una specifica “attrezzatura” teorica e pratica innanzitutto caratterizzata dalla consapevolezza dell’essere soggetto attivo in un “campo relazionale”. Ciò definisce  l’atteggiamento “osservativo” fenomenologico dove l’osservatore  ha consapevolezza dell’essere parte integrante del sistema osservato cioè delle condizioni psichiche del paziente. In questo senso sarà ogni volta una nuova osservazione relativa, di fatto, ad un nuovo stato osservato. Pertanto più raffinata sarà la coscienza di sé dell’osservatore e maggiore sarà l’accuratezza dell’osservazione. Il campo indagato, cioè la configurazione attuale, sarà caratterizzata dalla presa in esame di tutti gli elementi del campo: biologici, storico-famigliari, relazionali, sociali, economici, politici ed elaborativi. Ovvero una semeiotica funzionale in grado di descrivere un “mondo abitato” da un individuo nel suo presente.

“Emergeranno” così sintomi principali e secondari (come dimensioni dotate di intensità), stili di vita caratterizzanti personalità patologiche o normali. Emergerà un corpo cioè condizioni fisiche patologiche o patognomoniche, ed emergeranno stili di pensiero con differenti livelli complessità a determinare differenti capacità di adattamento comportamentale e cognitivo e soprattutto emergerà una “capacità di pensare” (Bion) specifica di quell’individuo.

Questi “nuovi casi” ai limiti con la normalità sono, in quanto tali,  fenomeni complessi e, di conseguenza, gli approcci terapeutici a questi disturbi devono tenere presente tale complessità per poter essere efficaci. Ciò è possibile attuando interventi che prendano in esame i molteplici piani “ontologici” che costituiscono l’individuo ed a quale livello sia necessario e possibile intervenire.

La pluralità delle possibilità di risposta tipizza la cura dei “nuovi casi”.

Viene qui proposta una nuova figura di un curante non totipotente ma immerso in una rete relazionale con altri terapeuti dotati di specifiche competenze teoriche e tecniche adeguate al “livello generatore” di disagio. Con livelli intendiamo il corpo, il sistema nervoso periferico e centrale, i comportamenti e le relazioni con questi interconnesse e la mente che, dalla nascita,  è un prodotto di questi livelli inferiori ed è su questi determinante. In questo senso le dicotomie ancora esistenti tra terapie farmacologiche e psicoterapie o tra tipi di psicoterapie sono oggi da considerarsi prive di senso.

Ovviamente l’obiettivo terapeutico, oltre alla remissione dei sintomi, deve tener conto della possibilità di influire sulle variabili che consentono di evitare, o per lo meno di ridurre, eventuali ricadute future.

E’ perciò necessario che il curante abbia consapevolezza che l’intervento terapeutico, per aumentare la propria efficacia, possa eventualmente avvenire attraverso più canali fra loro complementari (Van Praag’s, Roose). Questo in un’ottica circolare che vede l’ambito organico e quello psichico come interdipendenti e come potenziali stabilizzatori reciproci, in quanto agiscono a livelli ontologici differenti ma tra loro interconnessi.

Come già evidenziato (Riva et al.) a sostegno dell’ipotesi che considera l’esistenza di un doppio canale attraverso il quale agirebbero le diverse modalità terapeutiche, rispettivamente gli interventi farmacologici e psicoterapeutici, si aggiungono i risultati di un recente studio di Goldapple et al.. Questa ricerca ha comparato, con l’utilizzo della tomografia ad emissione di positroni (PET), le modificazioni nell’attività cerebrale di soggetti depressi al termine di un trattamento farmacologico a base di paroxetina rispetto a pazienti depressi trattati con una terapia cognitivo-comportamentale per un ciclo di 15-20 sedute.

Gli autori affermano, in base ai risultati ottenuti, che entrambi i trattamenti provocano dei cambiamenti dell’attività cerebrale tali da ridurre la patologia depressiva. Nello specifico, al termine dei trattamenti, si assisterebbe ad un aumento dell’attività della regione limbica e della corteccia frontale. Ma l’aspetto di maggior interesse evidenziato dalla ricerca riguarda il diverso percorso seguito dai trattamenti nel raggiungere tale risultato: la psicoterapia seguirebbe un percorso dall’alto verso il basso (top-down) aumentando il metabolismo dell’ippocampo e del cingolo dorsale e diminuendo l’attività della corteccia dorsale, mediana e ventrale. Tali cambiamenti sarebbero in grado di modificare meccanismi come quelli della memoria e dell’attenzione che, nel caso siano caratterizzati da errori (bias) affettivi e cognitivi, provocano l’emergere ed il permanere della depressione.

Diversamente, la paroxetina seguirebbe un percorso dal basso verso l’alto (bottom-up), modificando direttamente lo stato biochimico del cervello, aumentando il metabolismo dell’area prefrontale e diminuendo quello dell’ippocampo e di altre aree, agendo così sulle aree legate alle emozioni fondamentali ad ai ritmi circadiani. Gli Autori concludono indicando, quale fattore fondamentale e critico per la remissione della malattia, la possibilità di una terapia integrata in grado di produrre una modulazione complessiva del sistema descritto piuttosto che un cambiamento nell’attività di una singola regione cerebrale.

Analogamente riteniamo priva di senso una conflittualità ancora esistente tra i vari approcci psicoterapeutici. In questo senso riteniamo possibile superare dicotomie storiche e attuali tra visioni del mondo cioè tra le psicoterapie prodotte da queste opinioni. Le concezioni di tipo darwinistico, data una visione “forte” del mondo quale prodotto di una selezione tra teorie, hanno prodotto psicoterapie “precise” quali quelle funzionalistiche cioè comportamentali, cognitive e relazionali (di coppia e famigliari). Le concezioni del mondo costruttivistiche, per le quali la comprensione consegue alla sospensione di ogni sapere preformato, hanno invece prodotto le psicoterapie “fenomenologiche”come la psicoanalisi (dal contro-transfert in poi), la psicoterapia psicoanalitica breve e la psicoterapia psicoanalitica di gruppo. Sulla base della nostra esperienza teorica e pratica riteniamo proponibile una meta-teoria che comporti la possibilità di far riferimento alle varie psicoterapie data una “pertinenza” di livello ontologico per ogni tipo di psicoterapia.

Conclusioni

“Quando le mie orecchie divennero più abituate al silenzio, piccoli suoni divennero più facili da udire. (…) Imparai a considerare l’importanza del silenzio per ascoltare i più “deboli suoni”. Ciò funzionò. E cominciai ad ascoltare suoni che un tempo non sarebbero stati avvertiti” (Bion, 1981).

Questo lavoro, che deve essere considerato una premessa teorica, vuole risultare introduttivo ad una visione antropologica dell’uomo occidentale che abita una grande metropoli come Milano. La nostra esperienza, innanzitutto osservativa, effettuata da più vertici ed in vari contesti, ci ha mostrato la comparsa di una “nuova normalità” che abbiamo descritto. Abbiamo provato ad individuare una zona caratterizzata da “infinite” sfumature situata tra la patologia a noi nota e una normalità nuova e “patologica” popolata da quelli che abbiamo chiamato i “nuovi casi”. Sicuramente l’espressività clinica della patologia psichica è cambiata in questi ultimi decenni, come dimostrano numerosi studi di psichiatria transculturale, con la diminuzione dei sensi di colpa a fronte di un aumento dell’idea di insufficienza e di incapacità. Questa mutazione fenomenologica-qualitativa dei sintomi “depressivi” è legata ad un diverso ruolo del soggetto nella cultura occidentale, a partire dagli anni ’50. “Il sisma della emancipazione” (A.Ehrenberg), tipico fenomeno degli anni ’60, ha comportato una mutazione dello statuto del soggetto. Mentre prima il cittadino era sottomesso alla responsabilità ed alla disciplina che implica un divieto, il cui non rispetto comporta il senso di colpa, attualmente egli è sottoposto al dovere della capacità, del successo, dell’efficacia personale, il cui fallimento comporta, al posto del senso di colpa, quello dell’inadeguatezza. Ad una genesi conflittuale si è sostituita una genesi difettuale o di impotenza.

Constatata la non utilizzabilità degli strumenti diagnostici usualmente utilizzati dai vari approcci psicopatologici, abbiamo “incontrato” il modello, per noi innovativo, della coscienza come “emergenza” ovvero dei livelli ontologici. Questa premessa filosofica ci ha permesso sia un orientamento etiologico e psicopatogenetico sia la formulazione di ipotesi terapeutiche che abbiamo applicato. I risultati “concreti” dei nostri interventi saranno prossimamente pubblicati.

Noi crediamo che il principale senso di questo lavoro sia un progetto preventivo “ad ampio respiro” sulla patologia psichica.

Da molto tempo (da sempre) la prevenzione è uno dei cardini della psichiatria e della psicologia clinica. Oggi l’attenzione dei clinici è sempre più centrata sui sintomi prodromici in soggetti a rischio di ammalare ma nei quali non è ancora possibile effettuare una diagnosi. Ma oltre a questa prevenzione, già terapia, noi pensiamo ad un lavoro di “educazione preventiva dell’anima” (Merlini) per essere adeguati a questo presente che brucia gli spazi di riflessione e soprattutto inaridisce il sentimento, che è poi l’organo attraverso il quale si “sente” prima ancora di “sapere” cos’è bene e cos’è male” cioè quel sentire empatico oggi a rischio di estinzione. In accordo con vari autori noi guardiamo ai rischi  determinati da una Tecnica che si insinua “molecolarmente” nel corpo e nella mente dell’uomo e lo trasforma in qualcosa che non è totalmente artificiale, ma non può più dirsi neppure naturale cioè in un ”analogo” dell’uomo, in ciò che Baudrillard definisce automa cioè un essere dotato di equivalenza umana ovvero un doppio meccanizzato. Noi siamo costantemente sottoposti a flussi informativi diffusi dai mezzi di comunicazione di massa i quali sono l’espressione, l’amplificazione di un sistema-mondo basato sulla produzione-consumo delle merci. E con merci intendiamo “oggetti” la cui funzione tecnica o estetica è l’aspetto meno essenziale rispetto alla prioritaria funzione di veicolatori di filosofie del mondo, cioè di stili di vita e di comportamenti. E soprattutto di pensieri. Pensieri sempre più raffinati e personalizzati che sostituiscono, che hanno già sostituito i simboli e i miti. Siamo consumatori di oggetti che già contengono in sé, modelli della mente, orientamenti di valore, forme di organizzazione della vita e dei rapporti umani. Queste merci, video merci, questi pensieri sono pronti all’uso, sono problemi già risolti, sono protocolli di intervento standardizzati sono pacchetti di diagnosi e terapie.

Dati questi presupposti, forse “catastrofistici”, abbiamo immaginato una risposta complessa al problema complesso rappresentato da sintomi e segni prodromici “a cavaliere” con la normalità. Una risposta ad ampio spettro che potesse comprendere una gamma il più ampia possibile di terapie “convalidate”. In questo senso grazie alle neuroscienze l’interesse per i correlati biologici degli interventi psicoterapeutici ha permesso il superamento progressivo della dicotomia tra psichiatria biologica e psichiatria psicologica. Gli interventi “non biologici” hanno dimostrati correlati a livello della biologia cerebrale, fino a modificazioni della trascrizione genica analoghe a quello indotte da interventi di tipo farmacologico. In qualsiasi momento della vita di uno psicopatologo queste psichiatrie non devono essere tenute troppo distinte ma dinamicamente poste in relazione tra loro e lasciate “sfumare” una nell’altra all’occorrenza. L’occhio sano è dinamico perché ha a disposizione parecchie distanze focali. La paralisi del muscolo dilatatore dell’iride blocca l’occhio in un’unica distanza focale. Noi pensiamo che il  clinico debba prestare attenzione al costante rischio di una paralisi dei propri strumenti osservativi. Riteniamo essenziale che la mente del curante sappia costantemente “ricordare” di abitare lo stesso mondo, lo stesso presente dei “nuovi” pazienti e sappia costantemente “rielaborare” questo ricordo per non cadere in costanti e automatiche “ripetizioni” (Freud).

 

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