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Psicoterapie nelle Istituzioni

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Trattamenti psicoterapeutici in ambito istituzionale: una prassi in progressione

G. Buffa,  M. Riva, D. Bertani, B. Conca, G. Laraspata, F. Piazzalunga, A. Terraciano, C. Mencacci 

In: Il Ruolo Terapeutico vol.118. franco Angeli, Milano 2011

Introduzione

Questo articolo si propone come una riflessione sulla possibilità e soprattutto sul senso dell’offrire, in ambito pubblico, un trattamento psicoterapeutico a breve termine, facendo riferimento alle opportunità di cura oggi possibili presso il Centro per la Ricerca e la Cura dell’ansia e della depressione dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Un approccio riduzionistico che sottende sia risposte protocollate medico-biologiche sia, a un opposto solo apparente, risposte costituite da interpretazioni psicoanalitiche sature di simbologie finite, risulta oggi, a nostro avviso, da considerarsi pericolosamente ingombrante per una prassi terapeutica basata sulle “evidenze cliniche”. Oggi noi ci sentiamo in grado di porci domande non retoriche che non si esauriscono con risposte preformate da una diagnosi e dal connesso protocollo terapeutico. Qual è la cura opportuna per questo paziente in questo momento?, che “attrezzatura” teorica e pratica abbiamo a disposizione? Sono esempi di domande “difficili”, cioè complesse e oggi non più riducibili a semplificazioni di superficie.

Poniamo l’accento sul presente perché solo da poco tempo, grazie allo sviluppo delle “teorie della mente”, è possibile far riferimento a molteplici risposte terapeutiche nate nel contesto di varie scuole di psicoterapia. Al contempo presso il nostro Centro queste domande “difficili” sono divenute possibili anche grazie alla continua elaborazione, ovviamente non solo teorica, degli usuali stati emozionali primitivi che caratterizzano “naturalmente” i gruppi istituzionali. Ad esempio, la distruttività sottesa all’invidia-gelosia per l’ “altra” scuola di pensiero è un argomento che è stato costantemente tenuto aperto durante le frequenti intervisioni cliniche. Questo articolo, esito di anni di pratica clinica e di sviluppi teorici, non mira alla precisazione di un protocollo standardizzabile ma in un certo senso proprio al suo contrario. Non mira cioè all’individuazione di risposte certe e costanti nel tempo ma allo sviluppo, in ambito psicopatologico, della capacità del curante di porsi domande adeguate rispetto agli specifici bisogni dei singoli pazienti.

 

 

Il Centro per Ricerca e la Cura dell’ansia e della depressione: evoluzione di una ricerca

Nel 2001 è stato aperto il Centro per la Ricerca e la Cura dell’ansia e della depressione. La domanda di terapia è stata, da subito, enorme. Inizialmente l’attività clinica, cioè diagnostico-terapeutica, è stata unicamente svolta dagli psichiatri del Servizio di Diagnosi e Cura che hanno “prestato” residui del proprio tempo istituzionale per visitare e fornire terapie unicamente psicofarmacologiche ai pazienti. Il modello  culturale di riferimento iniziale era quello medico-biologico e, in particolare, il DSM IV è stato il referente teorico per una prassi clinica idealmente a-teorica. Le sindromi depressive e ansiose sono state affrontate con un apparato basato su un punto di vista operativo: una sindrome ha una terapia codificata. In relazione, ma non solo, all’importante afflusso di pazienti gli automatismi diagnostico-terapeutici, immaginati come risolutivi, sono stati messi a dura prova. La teoria è stata messa in crisi dalla prassi, ovvero le terapie, necessariamente relazionali, hanno messo in crisi la “tenuta” emotiva di noi psichiatri. Nel frattempo il Centro è stato individuato come luogo di formazione clinico-pratica per varie scuole di specializzazione in psicoterapia. Il Centro si è sempre più affollato di pazienti, psichiatri e psicologi in formazione, personale di segreteria. Grazie alle prime riunioni di coordinamento sono state prodotte delle linee guida finalizzate sia ad “ordinare” la confusione sia ad introdurre variazioni “dinamiche” ovvero flessibili sul piano decisionale e terapeutico. Per usare un’altra terminologia abbiamo cercato di costruire un “setting” basandoci sulle nostre esperienze e sulle teorizzazioni conseguenti.

Hanno preso avvio vere e proprie supervisioni dei casi clinici con frequenza settimanale e riunioni dell’intera équipe con cadenza mensile. Abbiamo cominciato a ragionare sulla validità di un modello definibile “apparato terapeutico ” costituito cioè da meccanismi esatti ed oggettivi e sulla ricerca di un’alternativa non caotica ma ordinata in un “dispositivo terapeutico” che tenesse conto delle “strategie di rapporti di forze che sostengono e sono sostenute da tipi di sapere” (1). Abbiamo cercato un nuovo paradigma culturale che ci risultasse soddisfacente e, nella ricerca di risposte e di modalità operative, abbiamo capito che, per trovarle, erano necessarie nuove domande. Cosa facciamo in otto sedute? Cosa possiamo aspettarci?

I diversi punti di vista presenti nel Centro, le diverse teorie, hanno indubbiamente aperto conflitti interni all’équipe che sono però risultati utili ad operare un sano “divorarsi” delle teoria, cioè una loro evoluzione. Non siamo, al momento, giunti ad una “terza via” integrata ma stiamo provando a sostenere e a mantenere le differenze teoriche e tecniche tra i vari approcci come valori tra loro non sovrapponibili e soprattutto per poter offrire ai singoli pazienti opzioni terapeutiche adeguate ai loro specifici bisogni.

 

 

  1. L’orientamento Psicodinamico-Psicoanalitico

Appartenenti all’orientamento psicoanalitico sono:

  • Il modello della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe)
  • Il modello della Scuola “Il Ruolo Terapeutico”
  • Il modello Lacaniano

 

1.1    Il modello Psicoanalitico Relazionale

Pur collocandosi in un’atmosfera che richiama il padre della psicoanalisi, l’orientamento relazionale non può essere considerato solo come suo discendente diretto. Tra il lettino di Freud e la poltrona dell’analista oggi, la stanza d’analisi è cambiata. La visione storica dell’analista neutro lascia infatti il posto al soggetto-analista che come tale non può prescindere dalla propria esistenza corporea e linguistica. La relazione analitica, quindi, al pari di ogni altra relazione, è scambio tra due soggettività, che si influenzano e si modificano reciprocamente. L’analista, come tale, ha il compito di guidare il percorso della cura, non di correggere gli errori che incontra sulla strada del paziente. Non deve ascoltare senza memoria e senza desiderio, quindi, ma deve cercare di esplicitare la sua memoria ed il suo desiderio in modo tale che non siano questi a guidare il suo intervento che, di conseguenza, non si colloca come esperienza correttiva, ma come premessa facilitante la possibilità che il paziente possa riappropriarsi della propria individualità. Questa operazione soggettiva, declinata all’interno di un setting breve di natura istituzionale, potrebbe essere descritta come possibilità del paziente di riappropriarsi della propria domanda. Non più quindi una richiesta condotta dal sintomo, ma un interrogativo portato avanti dal soggetto, che abbia l’Io come Soggetto del proprio mal-essere. Tenersi ancorati a questa realtà non è impensabile, ma, al contrario, è qualcosa che deve essere necessariamente valutato anche in un intervento breve, con un numero predeterminato di incontri. L’inconscio ed i suoi regimi non seguono le fila del tempo, spaziano stravolgendo i fili della temporalità: se la relazione è l’ambito dell’osservazione in cui si ripresentano e si ripercuotono i nodi del passato e le sagome del presente, sussiste sia in un’analisi a lunga durata, sia in un setting breve con pochi incontri, dal momento in cui noi apriamo la porta e ci muoviamo nella stanza d’analisi. Sapere questo e tenerlo a mente forse aiuta a non lasciare il paziente in piedi.

Il Modello della matrice relazionale o Psicoanalisi della Relazione è stato formulato da Mitchell (2), basandosi su un lavoro precedente. Oltrepassando il Modello pulsionale offre una visione radicalmente diversa della teoria interpersonale, delle relazioni oggettuali e della psicologia del sé.  Secondo quest’ultimo modello, lo sviluppo umano avviene all’interno della “matrice relazionale” che ogni individuo costruisce nel tempo tramite le esperienze ripetute di organizzazione di sé, dei legami oggettuali e dei pattern transazionali. La matrice include sia le strutture intrapsichiche, sia le configurazioni relazionali. La piú recente Psicoanalisi della Relazione si pone, per dirla alla Bromberg (3), “Standing in the spaces” ovvero tra spazi di realtá (teoriche) differenti senza appropriarsi di nessuna di esse. Questo pertanto non fa del modello relazionale un approccio eclettico nel senso piú specifico del termine, anzi lo áncora ad un’epistemologia fondata e differenziata dagli altri modelli psicoanalitici presenti sulla scena.

 

 

1.2 Il modello della scuola “Il Ruolo Terapeutico”

All’interno dell’orientamento psicoanalitico relazionale si colloca anche la concezione teorica de “Il Ruolo terapeutico”, che pone in primo piano l’importanza della realtà interpersonale del soggetto nello sviluppo psichico e della personalità, così come nell’eziologia del disturbo psichico, e che vede il terapeuta attivamente impegnato a co-costruire con il paziente il campo relazionale all’interno del quale entrambi si muovono,  determinandolo in maniera rilevante. In un contesto teorico che ritiene che la configurazione psichica di ogni individuo si costituisca sulla base di esperienze di relazione, a partire dalle interiorizzazioni e dalle rappresentazioni interne di esperienze interpersonali che vengono poi costantemente riattualizzate in ogni relazione intrattenuta dal soggetto, l’obiettivo dell’intervento terapeutico, anche all’interno di un percorso istituzionale di breve durata, è quello di offrire al paziente la possibilità di fare un’esperienza nuova di sé stesso a partire dall’incontro con lo psicoterapeuta, sviluppando la capacità di ripensare il proprio disagio secondo l’ottica del proprio mondo interno e delle proprie fantasie inconsce. Tale obiettivo viene perseguito soprattutto attraverso la significazione di quanto l’hic et nunc dell’interazione analitica ripropone del mondo delle rappresentazioni e della storia relazionale passata del soggetto, rilevando e rimandando continuamente al paziente come si muove nella relazione con il terapeuta. La compartecipazione di paziente e analista permette la costruzione progressiva di un nuovo “racconto” di sé, nel quale perviene alla coscienza del paziente qualcosa che fino ad allora era assente; diventa cioè possibile per il soggetto iniziare a percepire come il suo modo di vedere se stesso e il mondo sia frutto di un suo personale codice emozionale e come sia, nell’attualità, attore ed artefice della propria condizione di disagio, consentendogli in questo modo di riappropriarsi della sua soggettività, cosi da potersi riconoscere come “domandante” la cura, intesa come percorso di analisi e conoscenza di sé, della quale si possa assumere responsabilità insieme al terapeuta.

1.3 Il modello Lacaniano

Nella rilettura lacaniana del lavoro di Freud, che restituisce dignità alla scoperta scomoda e sovversiva dell’esistenza del soggetto dell’inconscio, la centralità non è dell’io bensì del soggetto dell’inconscio che lo sovverte da dentro: “l’io non è più padrone nemmeno in casa propria” diceva Freud. In questo modo Freud operava un decentramento fondamentale dell’io, il quale non detiene più alcun diritto di padronanza ma appare piuttosto come strutturalmente subordinato alla ragione dell’inconscio. La rilettura della teoria Feudiana, mette in luce non tanto l’esistenza di un inconscio come istanza irrazionale, quanto una sua operatività simbolica, una sua logica interna che, con meccanismi come lo spostamento e la condensazione, ben si può cogliere sulla base di una modalità retorico-linguistica di funzionamento. L’assioma “l’inconscio è strutturato come un linguaggio” sottolinea che l’essere umano è parlato dal linguaggio, lo predetermina. Nasciamo in un mondo di linguaggio, in un mondo caratterizzato da leggi simboliche, e l’inconscio è governato da queste leggi. Il linguaggio, la cultura, la civiltà sono il grande Altro. L’Altro come luogo della parola è l’Altro che l’analista sa incarnare, è l’Altro che sa riconoscere il desiderio del soggetto. L’inconscio strutturato come un linguaggio è la tesi che permette di pensare all’azione dell’inconscio come a un’azione capace di produrre significazioni, effetti di senso. La non coincidenza tra io e soggetto dell’inconscio modifica la strategia clinica: non si tratta più di puntare al rafforzamento progressivo dell’io bensì di realizzare il soggetto dell’inconscio al di là dell’alienazione immaginaria costituita dell’io. “L’io è un oggetto fatto come una cipolla, lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito” dice Lacan. La parola dunque opera per simbolizzare le identificazioni immaginarie che irretiscono il soggetto. (4,5)

Come si può tradurre questo approccio psicoanalitico in un contesto istituzionale che consente un tempo breve e definito caratterizzato da otto sedute? Che cosa si può prefiggere il terapeuta in questo tempo? Si può concepire questo tempo come una dimensione in cui colui che domanda può incontrare “qualcosa”. Questo qualcosa ha a che fare con la sorpresa e questo presupposto non cambia da un trattamento a breve termine a uno a lungo termine. La sorpresa consiste nel fare incontrare al soggetto la sua parola, la sua domanda, nel fare emergere cosa c’è nella domanda di cura: che cos’è la vita buona per lui? E’ proprio questo che domanda? Con l’esperienza abbiamo potuto verificare che le otto sedute rappresentano un tempo sufficiente per fare intravedere al soggetto che:

  1. l’inconscio è una realtà tangibile e ha una sua logica di funzionamento
  2. l’inconscio si esprime sotto diverse forme e fa capolino spesso nel discorso verbale
  3. a partire dai primi due punti c’è una responsabilità del soggetto in merito ai propri sintomi
  4. se c’è una responsabilità del soggetto quest’ultimo può diventare parte attiva nella ricerca della verità del proprio desiderio di cui il terapeuta si farà interprete.

 

  1. L’orientamento Cognitivo-Comportamentale

La Psicoterapia cognitivo comportamentale ha come obiettivo lo studio dei processi mediante i quali le informazioni vengono acquisite dal sistema cognitivo, trasformate, elaborate, archiviate e recuperate. Si basa sul modello secondo il quale le emozioni e i comportamenti delle persone sono influenzati dalla loro percezione degli eventi: “ non è la situazione in sé a determinare ciò che le persone provano ma piuttosto il modo in cui esse interpretano certe esperienze”. Ellis e Beck, negli anni 60, iniziarono a indagare le rappresentazioni coscienti e preconscie che conducono a uno stato emotivo problematico e svilupparono un approccio psicoterapeutico inverso a quello sviluppato dalla psicoanalisi. In sintesi, invece che focalizzarsi solo sugli aspetti inconsci, Beck ipotizzò come potenzialmente utile il coinvolgimento anche degli aspetti consci e razionali dell’individuo. Beck chiamò queste rappresentazioni pensieri automatici. Sono pensieri che si presentano senza l’esperienza soggettiva di uno sforzo di riflessione, in forma telegrafica, hanno un contenuto di ovvia plausibilità senza alcuna distanza critica, esprimono una modalità costante di attribuzione di significato agli eventi. Queste strutture stabili costituiscono uno schema cognitivo (6). Quando questi schemi sono ipervalenti, distorcono la realtà, provocano sofferenza, contengono termini come “sempre, ogni volta, mai” vengono definiti disfunzionali, e sono specifici per i vari disturbi, così da rendere possibile rintracciare un profilo cognitivo per le diverse sindromi psichiatriche. Secondo Beck a impedire la correzione delle convinzioni generate dagli schemi disfunzionali sono alcuni errori presenti nei processi di elaborazione dell’informazione come trarre conclusioni in assenza di prove, concentrarsi su un particolare di un contesto per definire l’intera esperienza, collocare tutta l’esperienza in due categorie opposte, ingigantire o minimizzare. L’innovativo approccio di Ellis, ossia la Rational-Emotive Therapy (Terapia razionale emotiva) scaturì dall’osservazione che la maggior parte delle persone incontrate nell’attività professionale avevano in comune la tendenza a sviluppare convinzioni rigide ed irrealistiche. Ellis definì queste convinzioni irrational beliefs (IB) e, nell’indagarle, arrivò a identificarne quelle principali, che possono essere riassunte in tre concetti irrazionali fondamentali: 1) “devo assolutamente”, 2) “se una cosa mi succede è terribile, non posso sopportalo, è catastrofico”,  3) “un mio comportamento definisce in modo assoluto quanto valgo come persona”. Ellis teorizzò che attraverso l’analisi razionale e la confutazione sistematica (ristrutturazione cognitiva) degli IB si possa comprendere i propri errori, crearsi nuove convinzioni più razionali e nuovi comportamenti costruttivi, ottenendo un miglioramento sul piano emotivo. Il disagio emotivo non dipende dall’aver appreso le idee irrazionali ma piuttosto nell’alimentarle con un meccanismo di autoindotrinamento. Lo scopo primario della terapia è quello di far sì che il paziente  riesca ad abbandonare le idee disfunzionali, che mette in atto nei diversi contesti, a favore di valutazioni più costruttive e logiche per rendere le emozioni meno problematiche. Nel dialogo il terapeuta stimola il dubbio nel paziente, lo porta a falsificare e verificare ipotesi tramite domande che lo costringano ad assumere un punto di vista sovraordinato rispetto al problema. L’obiettivo è la trasformazione di stati emotivi disfunzionali agendo un cambiamento sui pensieri, oltre che sui comportamenti e le emozioni stesse. Per quanto riguarda l’utilizzo dell’approccio cognitivo presso il Centro per la ricerca e il trattamento della depressione e dell’ansia si procede secondo alcuni punti essenziali. La prima parte degli incontri riguarda l’analisi dell’organizzazione del problema, per quel dato paziente, attraverso l’utilizzo del “modello ABC” in seduta e sul ricorso agli homework (attività prescritte al paziente tra una colloqui e l’altro). (7) Il “modello ABC” è stato introdotto da Albert Ellis (1962) e costituisce la base imprescindibile di ogni tipo di intervento cognitivo comportamentale. Il primo elemento, che corrisponde alla lettera A, Activating Event (evento attivante), definisce tutte le situazioni che determinano una reazione nelle persone. Si tratta in genere di fatti concreti, problemi da risolvere, situazioni che si possono descrivere come episodi narrabili. Il secondo elemento, che corrisponde alla lettera B, Belief Sistem (sistema di convinzioni) definisce tutti i pensieri, le interpretazioni, le credenze, le norme che fanno parte della nostra vita mentale. Il terzo elemento, che corrisponde alla lettera C, sta per Consequences (conseguenze), comprende emozioni e comportamenti. Fondamentale nel modello ABC è la correlazione tra B e C, ovvero, tra il modo di pensare e il modo di sentire. La seconda parte dei colloqui, in continuità con le riflessioni emerse nella prima parte, riguarda la messa in discussione degli schemi cognitivi distorti. Vengono coinvolte alcune tecniche cognitive come la ristrutturazione cognitiva. Infine ci si orienta all’individuazione di modalità di pensiero alternative che ne determinano una conseguente variazione emotivo e comportamentale. Accanto e in sinergia all’impostazione cognitiva razionalista e standard, di cui sopra, viene coinvolto un approccio meno improntato all’utilizzo di tecniche e basato sull’orientamento cognitivo post-razionalista. Questo è particolarmente orientato all’individuazione, insieme al paziente, della comprensione dei significati personali legati al proprio panorama emotivo attraverso un atteggiamento esplorativo e di interesse alle emozioni. Il punto focale, più che i pensieri automatici, diviene il proprio mondo emotivo. Il terapeuta si pone in un ruolo di “perturbatore strategicamente orientato” che, attraverso la relazione terapeutica connotata emotivamente, fa rileggere al paziente la propria organizzazione cognitiva costante con cui si relaziona con se stesso e con il mondo e da cui dipendono le sue emozioni negative per orientare verso altri equilibri possibili. (8).

 

La psicoterapia integrata

 La tendenza all’integrazione nel campo della psicoterapia si è affermata negli ultimi decenni ed è stata promossa da vari fattori: una maggiore possibilità di scambio e diffusione d’informazioni che ha ampliato la conoscenza dei terapeuti riguardo prospettive diverse dalle proprie; la ricerca differenziale (studi comparativi dei vari approcci terapeutici) che ha evidenziato una fondamentale somiglianza tra le varie terapie per quanto riguarda i risultati. Dalla tendenza al contrasto, pertanto, le diverse correnti si sono avviate al confronto, con l’intento d’imparare da altri metodi e tecniche, per approfondire non solo la conoscenza degli altri sistemi, ma anche di quello al quale si appartiene perfezionando così la competenza dei processi di cambiamento in psicoterapia (9). L’apporto fondamentale del modello integrativo alla psicoterapia è il pluralismo, secondo il quale nessun singolo approccio teorico, epistemologico o metodologico, è sufficiente per la comprensione di ogni fenomeno, ma esiste più di una prospettiva corretta. Il movimento integrativo può aiutare i teorici e i clinici a superare l’atteggiamento di superiorità e rifiuto che frequentemente si sviluppa nel confronto con altre “culture” terapeutiche, consentendo loro di porsi di fronte a ciò che è diverso con un sentimento di sorpresa e desiderio di apprendere. Nella nostra esperienza non siamo giunti ad una applicazione della psicoterapia integrata nei termini qui esposti. La nostra integrazione si è “limitata” ad una apertura, il più dialettica possibile, tra i diversi orientamenti con la possibilità, o la speranza, di utili contaminazioni tra i diversi approcci, pur mantenendo, nell’ambito di quella psicoterapia, quell’orientamento deciso a priori. La nostra apertura prevede, per sua stessa natura, evoluzioni ed allargamenti di vedute e sperimentazioni, ritenendo quindi possibile l’avvio di esperienze integrate nel senso più proprio del termine.

 

L’efficacia di un trattamento e il tempo della cura

Pur nella complessità dei diversi approcci che convivono in questo centro, tutti ci addentriamo in una problematica comune. Per scelta, il nostro approccio psicoterapeutico è breve. Anzi, brevissimo. Abbiamo stabilito un percorso terapeutico di  8 incontri per tutti i pazienti, a prescindere dalla gravità della patologia, dell’orientamento del terapeuta, della predisposizione del paziente e della preferenza di chi opera. E’ una scelta fortemente orientata dalla dimensione “pubblica” nella quale operiamo che, per definizione, deve incontrare le esigenze degli utenti di poter accedere, se non tutti quasi, a questa opportunità terapeutica, una scelta che difendiamo. Scrive Benedetti (10): “attraverso il sintomo il paziente vuole dirci qualcosa che altrimenti non può esprimere. Il suo bisogno di comunicare qualcosa […] non cessa mai. […] Non esiste umanità, per quanto disfatta o alienata, che abbia perduto completamente questa necessità”. Quanto tempo occorra per dare spazio a questo bisogno, al racconto delle esperienze attraverso le quali si manifesta, quante sedute siano necessarie per raccogliere questa narrazione e attribuirvi un senso, sono solo alcune delle domande che occupano lo spazio analitico e la mente del terapeuta. Già il concetto di tempo rappresenta un grande contenitore che accompagna l’incontro con il paziente: il tempo della seduta, il tempo soggettivo della seduta, il tempo dei silenzi, il tempo del racconto, per non parlare di quello che viene definito come il tempo della cura. Tradizionalmente il concetto di tempo viene inteso come la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Tutti gli eventi, poi, possono essere descritti in un tempo che può essere presente, passato o futuro, ricostruiti in una tela storica propria di ogni individuo. Secondo questa visione l’esistenza di ognuno è intrisa di temporalità. Anche la dimensione della cura quindi non può prescindere dall’interrogarsi rispetto al suo aspetto temporale. In merito a questo ci chiediamo che cosa possa definire una terapia efficace. Nei criteri che potremmo elencare per definire l’efficacia di un trattamento, dovrebbe essere presente una voce rispetto al tempo? E, se decidiamo questo, cosa dovrebbe contenere? Gli psicoanalisti sono restii a parlare del tempo; di fronte ad un paziente che si interroga sulla variabile temporale del proprio percorso, non esitiamo o molti di noi non esitano a collocare questo atteggiamento nell’elenco delle resistenze, di ciò che ha una funzione difensiva ed allontana dal nucleo profondo. Eppure questo interrogativo non riflette esattamente qualcosa di profondamente radicato nell’individuo, qualcosa che gli appartiene come dato storico e personale? Se così fosse, è d’obbligo per il terapeuta avere uno spazio nella propria mente per il tempo. Ma se è complesso pensare ad un tempo della cura rispetto ad un percorso terapeutico, definire un termine entro il quale si è arrivati a ciò che può essere considerata la fine di un percorso terapeutico; diversa è la situazione in cui esiste già un tempo in cui l’intervento deve essere condotto. Cosa possiamo dire in merito al tempo precostituito? Ci arrendiamo o ci attrezziamo sapendo che, dato il poco spazio, a qualcosa dovremmo rinunciare? Nel cercare una risposta a questi interrogativi ci può venire forse in aiuto la psicopatologia fenomenologica. Scrive Jaspers (11): “la diagnosi è l’ultimo punto da considerare nella comprensione di un caso. L’importanza è l’analisi ed il fatto che il caos dei fenomeni non venga seppellito da una etichetta diagnostica, ma che risalti invece in modo evidente e in concatenazioni molteplici”. Sembra, quindi, che il tempo della cura non abbia a che fare con il tempo della diagnosi. Anzi, se ci si lascia prendere dall’ “ansia del diagnosticare” si rischia di compiere “un’anticipazione spesso deformante di qualcosa che idealmente rappresenta il momento conclusivo della ricerca e che può condurre a tagliar fuori tutta la ricchezza e la complessità dell’umano esperire coglibile”. Se, quindi, come insegna la psicopatologia fenomenologica, si riuscisse a lasciare fuori dalla stanza d’analisi l’etichetta diagnostica, senza pensare di aver perso uno strumento di comprensione, potremmo pensare di avvicinare la storia che abbiamo di fronte con un po’ più di quella sospensione del giudizio che appartiene all’approccio fenomenologico. La nozione di tempo, poi, richiama direttamente un altro concetto da questo imprescindibile: quello di spazio. Anzi, il tempo delle sedute potrebbe rappresentare in qualche modo anche lo spazio delle sedute. Potrebbe essere valida anche per noi la risposta che Gurnemanz dà a Parsifal nel testo di Wagner: “vedi, figlio mio, qui il tempo diviene spazio”. Nel caso del setting terapeutico, infatti, tempo e spazio si intrecciano rendendo difficile comprendere dove si colloca l’uno rispetto all’altro. Il tempo è, anzi, collocato in una dimensione spaziale e lo spazio ha una sua dimensione temporale ed entrambi rappresentano “il luogo” in cui il paziente porta e pone la sua domanda. Scopo del nostro intervento è creare un punto di partenza, un vero e proprio spazio di ascolto, non dicotomico, in cui prestare attenzione alla richiesta del paziente. Al di là del tempo in cui la cura potrebbe essere “distribuita”, l’atteggiamento terapeutico non dovrebbe cambiare, o meglio, non dovrebbe abbandonare il filo conduttore che lega nello spazio e nel tempo analista e paziente. Non si lavora per chiudere quesiti attraverso la ricerca di risposte o cause, ma si lavora per aprire un nuovo modo di porsi gli interrogativi per cui il paziente è arrivato nella stanza d’analisi. Il tempo della cura, quindi, è sicuramente arduo da quantificare; così come è complesso tradurre ciò che il paziente può raggiungere e costruire in 10 sedute contro anni di terapia. È chiaro che ci troviamo di fronte ad uno spazio più ampio con un tempo illimitato; è altrettanto chiaro che il paziente si potrà muovere diversamente in uno spazio limitato, ma il fatto che sia limitato lo rende veramente uno spazio diverso? Cambia veramente qualcosa nella mente del terapeuta che ha un ciclo di sedute predefinite piuttosto che anni a disposizione? Forse questa è proprio una delle cose che non dovrebbero mutare con il tempo; la mente del terapeuta dovrebbe restare tale indipendentemente dalla durata della terapia, l’atteggiamento di sospensione e di ascolto non dovrebbero essere vincolati al numero di sedute, anche perché altrimenti dovremmo parlare di cura del tempo e non di tempo della cura.

 

Conclusioni

In precedenti lavori (12,13) abbiamo sostenuto la superiorità dell’approccio integrato (psicoterapico e farmacologico) nel trattamento della depressione maggiore. Nello specifico, nei pazienti trattati con psicofarmaci associati alla psicoterapia, é stata riscontrata una superiorità statisticamente significativa nella riduzione del disagio psichico e nei livelli della sintomatologia ansiosa e depressiva ma, soprattutto, un aumento di soggetti classificabili come responder alle terapie e di coloro che al termine dei trattamenti avevano raggiunto una remissione completa dalla sintomatologia. L’impiego di trattamenti integrati non ottiene come risultato una semplice somma di effetti derivanti dai singoli trattamenti bensì una modulazione complessiva del sistema nervoso e dunque una maggior efficacia nella risoluzione dei sintomi, una maggior probabilità per il paziente di raggiungere un benessere su differenti livelli del suo funzionamento psichico e, di conseguenza, una riduzione del rischio di recidive. In base alla nostra esperienza ci sembra di poter affermare una superiorità dei trattamenti integrati nella cura dei disturbi depressivi ed ansiosi e la validità dell’ipotesi che considera tali interventi attivatori più efficaci di risposte ai trattamenti oltre che validi nell’aumentarne significativamente la qualità e di conseguenza la stabilità nel tempo. Il Centro per la Cura della Depressione e dell’Ansia, prevede la possibilità per lo psichiatra di avvalersi di differenti modalità psicoterapeutiche. Il presupposto é di intervenire focalmente nel momento della crisi attraverso trattamenti brevi seguendo il paziente per circa quattro mesi avendo così a disposizione, per la coppia terapeutica, un tempo sufficiente ad affrontare e trattare i contenuti psichici relativi alla crisi. In base alle indicazioni rilevate dallo psichiatra di riferimento e dalle caratteristiche del singolo paziente, gli interventi possono essere ad orientamento psicodinamico, o ad orientamento cognitivo-comportamentale. Ci siamo domandati quale sia il fattore, l’elemento, l’ingrediente che orienta la scelta dello psichiatra verso un approccio dinamico o cognitivo. La diagnosi psichiatrica in sé non è risultata a nostro avviso orientante in questo senso. Ci sentiamo di affermare, in forma preliminare, che l’indicazione per un trattamento psicodinamico è stata suggerita ai pazienti dotati di una buona capacità introspettiva e disponibili ad accostarsi ai propri contenuti psichici disturbanti, al fine di iniziare un percorso di elaborazione che consenta di rimobilitare le proprie risorse psicologiche. Diversamente, l’indicazione per un trattamento cognitivo-comportamentale è stata preferita per i pazienti cui abbiamo ritenuto maggiormente utile fornire strumenti evolutivi con un approccio di tipo direttivo, focalizzato alla risoluzione dei sintomi. Alcuni pazienti possono sentire la necessità di disporre di indicazioni comportamentali, anche pragmatiche, al fine di fronteggiare il loro disagio, agendo sui processi di pensiero disfunzionali e sul loro cambiamento attraverso modalità prevalentemente operative. Ci rimane il dubbio, però, che questa scelta non sia sempre ed esclusivamente operata dal terapeuta, piuttosto già orientata dal paziente stesso, in base al suo stile, al suo linguaggio intrapsichico, al mondo relazionale in cui abita. Ci è venuto spontaneo parlare di un linguaggio della domanda del paziente.

E su questa domanda ora ci stiamo interrogando.

 

Bibliografia

 1) Foucault M. (1980), “The Confession of the Flash”, in: (Gordon N., a cura di) Power/Knowledge: Selected Interviews and Other Writings 1972-77, Harvester Press, Brighton

2) Mitchell S.A. (1988), Relational Concept in Psychoanalysis. An Integration, The President and Fellows of Harvard University Press, Cambridge, Mass-London, tr. It, Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1993

3) Bromberg, P.M. (1988), Standing in the Spaces, Essays on Clinical Process, Trauma and Dissociation. The Analytic Press, New York

4) Lacan J. (1974), Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti. 1° volume. Einaudi. Torino

5) Cosenza D. (2003) , Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi. a cura di Antonio Di Ciaccia, Astrolabio,

6) Semerari A. (2002), Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva, Laterza
7) Baldini F. (2004), Homework: un’antologia di prescrizioni terapeutiche., McGraw-Hill

8) Guidano V. F. (2007), Psicoterapia cognitiva post razionalista. Franco Angeli

9) Alberti G. G., Carere-Comes T. (2003), Il Futuro della Psicoterapia tra Integrità e Integrazione, Franco Angeli

10) Benedetti G. (1980), Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale, Einaudi, Torino.

11) Jaspers K. (1913), Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1964

12) Riva, M., Lurati, C., Durbano, F., Regispani, F., Mencacci C. (2006). Terapia e terapie: valutazione dell’efficacia terapeutica nell’approccio integrato farmacologico e psicoterapeutico in pazienti affetti da Depressione Maggiore, Giornale Italiano di Psicopatologia, 12, pp.323-331

13) C. Mencacci, M. Riva, G. Buffa, E. Dinasso, V. Ferrari, C. Lurati, I. Netti (2007), I Disturbi Depressivi e d’Ansia. Una valutazione retrospettiva comparata della casistica e dei trattamenti, Quaderni Italiani di Psichiatria, XXVI: 70-77

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