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Morte, angoscia ed esperienza metafisica

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Paolo Milanesi
Ricerca Psicoanalitica, V. 34 N. 1 (2023): Franco Angeli, Milano.
https://doi.org/10.4081/rp.2023.725

 

Morte, angoscia ed esperienza metafisica

SOMMARIO. – L’autore muove la sua riflessione a partire dalla filosofia antica, intesa come
esercizio spirituale di vita vissuta, e introduce il tema della morte che secondo Platone ed altri
filosofi antichi rappresentava il morire alla propria individualità per accedere ad un pensiero
vero ed entrare in contatto con l’universalità del tutto cosmico. Successivamente approdando al
pensiero filosofico moderno, attraverso Heidegger, viene introdotto il tema dell’angoscia quale
inevitabile viatico per accedere al ‘puro essere’ dell’essere umano o Esserci; e infine da qui,
soprattutto appoggiandosi al pensiero di Elèmire Zolla prova ad indicare una strada che,
superando l’angoscia e ‘perdendo’ la propria individualità identitaria, possa portare a identificarsi
con l’’essere che semplicemente è’ nel mondo. In quest’ultimo passaggio viene individuato il
possibile emergere dei diversi disturbi mentali in luogo di una possibile illuminazione, soprattutto
se si è lasciati soli nella propria esperienza fenomenologico esistenziale.

Parole chiave: essere; unità; morte; angoscia; esperienza metafisica.

‘Quasi nello stesso tempo in cui visse Cartesio, Pascal scoperse la logica del
cuore, contrapponendola alla logica della ragione calcolante. L’interiore e l’invisibile
del cuore non solo è più interiore che il ‘dentro’ della rappresentazione
calcolata e perciò più invisibile, ma abbraccia una ragione più ampia di quella
degli oggetti semplicemente producibili. Nell’invisibile ‘ultrainteriorità’ del
cuore, l’uomo è prima di tutto sospinto verso ciò che deve essere amato: gli avi,
i morti, l’infanzia, i nascituri.’
Martin Heidegger
(alla conferenza commemorativa del 20º anniversario della morte
di Rainer Maria Rilke)

Morte, angoscia ed esperienza metafisica sono stati che possono essere
messi in comune e collegati tra loro a vari livelli e in vari modi; cercherò di
fare ciò ponendomi prevalentemente da un punto di vista filosofico ma
oscillando talvolta anche in un vertice di osservazione psicologico-psico-
analitico. Rifacendoci al pensiero di Pierre Hadot (2001) possiamo dire che
gli storici distinguono il discorso filosofico (la teoria) e la filosofia in sé. Il
discorso filosofico era diviso in tre parti: la logica, la fisica e l’etica.
Esisteva quindi la teoria della logica, la teoria della fisica e la teoria della
morale. La teoria filosofica, nella filosofia antica, non era ‘la filosofia’ o
quanto meno non la definiva esaurendola. La filosofia era, più originariamente,
l’esercizio effettivo, concreto, vissuto: la pratica della logica, dell’etica
e della fisica. La vera logica non era la teoria pura della logica, ma la
logica vissuta, l’atto di pensare in modo corretto e di esercitare di conseguenza
il proprio pensiero nella vita di tutti giorni. L’etica autentica non era
la teoria dell’etica, ma l’etica vissuta nella vita con gli altri uomini. La vera
fisica non era la teoria della fisica, ma la fisica vissuta, cioè un certo atteggiamento
nei confronti del cosmo. Questa fisica vissuta consisteva anzitutto
nel cercare di vedere le cose, non da un punto di vista antropomorfico ed
egocentrico, ma nella prospettiva dell’universo e della natura. La terra e le
cose umane sono un punto infinitesimale nell’immensità. Questa fisica vissuta
consisteva soprattutto nel prendere consapevolezza che si è una parte
del Tutto unitario e che si deve accettare lo svolgimento necessario di questa
Unità con la quale dovremmo identificarci, poiché siamo una delle sue
parti. Nella storia della filosofia questa fisica vissuta era un vero e proprio
esercizio spirituale (Hadot, 2002) ed è sempre esistita; era una fisica, ma
con un valore spirituale. Questa fondamentale distinzione mi pare possa
essere considerata, mutatis mutandis, come spunto di riflessione per distinguere
ma anche accomunare, teoria psicoanalitica e pratica clinica.
Il mondo può essere compreso in modo scientifico facendo uso degli
strumenti di misura e di esplorazione e dei calcoli matematici ma anche
attraverso l’uso ingenuo della percezione. Si comprenderà meglio questa
dualità pensando all’osservazione di Husserl (1992), ripresa da Merleau-
Ponty (1945) per cui la fisica teorica ammette e prova che la terra si muove,
ma, dal punto di vista della percezione, la terra è immobile. Ebbene è proprio
la percezione a essere il fondamento della vita che viviamo. È in questa
prospettiva della percezione che può collocarsi la presa di coscienza della
presenza del mondo e della nostra appartenenza ad esso. L’esperienza del
filosofo si accomuna qui a quella del poeta e dell’artista e forse potrebbe
accomunarsi anche a quella dello psicoanalista. Questo esercizio, come ha
dimostrato Bergson (1946), consiste nel superare la percezione utilitaristica
che abbiamo del mondo per raggiungere una percezione disinteressata di
esso, non in quanto mezzo per soddisfare i nostri interessi, ma semplicemente
in quanto mondo, che è come se sorgesse di fronte a noi per la prima
volta. ‘La vera filosofia’, ha detto Merleau-Ponty (1960), ‘è reimparare a
vedere il mondo’.
Questo atteggiamento ‘filosofico’ appare così come una trasformazione
della percezione. Marco Aurelio (Hadot, 1996) sostiene che percepire le
cose come estranee significa trasformare il proprio sguardo in modo tale da
avere l’impressione di vederlo per la prima volta, liberandosi dall’abitudine
e dalla banalità. Si tratta di un esercizio rivolto a farci superare, ancora una
volta, il nostro punto di vista parziale particolare per farci vedere le cose e
la nostra esistenza personale in una prospettiva cosmica e universale, ricollocandoci
così nell’immenso evento dell’universo, ma anche, potremmo
dire, nel mistero dell’esistenza.
Pensiamo al nostro atteggiamento di psicoanalisti di fronte alla narrazione
e all’’essere’ del paziente (Milanesi, 2022); o ancora a Bion (1967) che
consigliava di accostarsi al paziente ‘senza memoria e desiderio’, con capacità
negativa che somiglia all’epochè (Husserl, 1992), al monologo interiore
di certi scrittori, all’attenzione fluttuante, alla possibilità di incontri onirici
nel campo analitico, dove i richiami della ragione alla spiegazione del
mondo, del paziente e dell’interazione paziente-analista rappresentano solo
un frastuono, un’incursione di quella spietata killer al lavoro che Freud
chiama pulsione di morte (Riva, 2022).
Come possiamo al giorno d’oggi concepire un orientamento di vita spirituale
laico? Potremmo pensarlo come il tenace intento di affinare la qualità
dei nostri sentimenti, pensieri e atti per tendere ad un sentire, un pensare
e un agire per il fine esclusivo di ciò che ci impegna (Zolla, 2016); non certo
per un tornaconto egoistico o altruistico, entrambi egocentrici, ma puntando
invece a perdere il proprio individualismo per sviluppare una tendenza che
vada verso l’affermazione dell’’essere come tale’.

Sulla morte

Platone ha sostenuto che la filosofia è un esercizio di morte (Platone,
1966). Voleva dire che bisogna distaccare l’anima dal corpo. Non si trattava
di un esercizio della morte, ma di un esercizio della vita spirituale, o intellettuale,
della vita del pensiero; si trattava di trovare un modo di conoscenza
diverso dalla conoscenza sensibile.
‘Adoperarsi in ogni modo di tenere separata l’anima dal corpo, e abituarla a raccogliersi
e a chiudersi in sé medesima fuori da ogni elemento corporeo, e restarsene,
per quanto è possibile anche nella vita presente, come nella futura, tutta
solitaria in sé stessa, intesa a questa sua liberazione del corpo come da catene’
(ivi, p. 144).
Si tratta, per l’anima, di liberarsi, di spogliarsi dalle passioni legate ai
sensi, per acquistare l’indipendenza del pensiero. Di fatto ci rappresenteremmo
meglio questo esercizio spirituale se lo intendessimo, ancora, come
uno sforzo per liberarsi dal punto di vista parziale passionale, legato ai
sensi, e per elevarsi al punto di vista universale.
Platone, gli stoici, gli epicurei hanno sempre considerato l’esercizio di
morte come un esercizio di vita (Hadot, 2001). La meditazione o il pensiero
o l’esercizio di morte sono in ultima analisi sempre un esercizio di vita ed
è bene esplicitare che esercitarsi a morire non significa affatto torturare il
corpo; è, ripeto, esercitarsi a morire alla propria individualità, alle proprie
passioni, per vedere le cose nella prospettiva dell’universalità; questo è ben
diverso da ciò che si può credere leggendo Platone superficialmente. Il
rifiuto del corpo sarebbe allora un rifiuto del minuscolo oggetto che siamo
e a ben vedere forse non è nemmeno un rifiuto, ma la presa di coscienza del
fatto che siamo solo una piccola parte del tutto e che vi sono cose ben più
importanti, valori in qualche modo assoluti; questo non implica però una
repulsione nei confronti del corpo (Hadot, 2002).
Ciò che colpisce di questa profonda considerazione che ci giunge da
Platone e da una parte considerevole dei filosofi antichi è la relativa mancanza
di descrizioni fenomenologiche del processo soggettuale che si collochino
sul piano esistenziale. Come se la totalità dell’impianto conoscitivo
dei fenomeni descritti restasse ancorato alla ‘ratio’ quale unica strada percorribile
per esplorare la conoscenza del mondo, senza che esperienze emotive
intense possano subentrare.
Mi pare che Zolla (2016) e ancora prima Heidegger (1976), come vedremo,
aprano altre strade, meno fondate sulla ‘ratio’ e sul ‘logos’, per orientarsi
verso la perdita dell’individualità e all’accostamento dell’’Unità del
Tutto’. Per Heidegger (1971), l’essenza di quanto appena detto, si colloca
nell’idea che l’anticipare o il precorrere la morte sia una condizione dell’esistenza
autentica. La coscienza della finitezza deve indurre l’uomo ad assumere
l’esistenza così com’è. Ma in Heidegger non si cerca, come nell’antichità,
di eliminare l’angoscia della morte; come vedremo, la sua filosofia è
‘esercizio della morte’: l’autenticità dell’esistenza sta nella lucida anticipazione
della morte, distinguendo l’essere-per-la-morte dalla meditatio mortis
(ibid). Forse si tratta di una caratteristica del mondo moderno, che ha impegnato
pensatori come Nietzsche (1995), Rilke (2017), Kierkegaard (2020) e
Goethe (2013), cioè l’idea che alla coscienza di esistere sia legata l’angoscia
e che il valore della vita, come diceva appunto Goethe, consista proprio
nel brivido di fronte all’Ungeheure, il terribile, il prodigioso o il mostruoso,
se così si può tradurre; ad ogni modo è del tutto assente in Spinoza, Epicuro,
gli stoici e Platone (Hadot, 2002). È fondamentale però ricordare che
Platone (1966) nella Repubblica, presentando la filosofia come un ‘esercizio
della morte’ ha preso una decisione estremamente importante, di una
verità profondissima, che ha avuto un’eco immensa nella filosofia occidentale
(Hadot, 2001).
Così scrive Montaigne (1953, p.110) in uno dei suoi saggi più celebri:
chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire’.
Il pensiero della morte impatta sul tono e sul livello della vita interiore
promuovendone una possibilità di trasformazione. Questo tema filosofico,
ma anche psicoanalitico, si ricollega a quello del valore infinito del momento
presente che occorre vivere come se fosse insieme il primo e l’ultimo.
Secondo la filosofia platonica, non si tratta solo di pensare la morte, ma di
praticare un esercizio della morte che, in realtà, è un esercizio della vita che
porta ad una conversione che si realizza con la totalità dell’anima:

‘Come un occhio che non si potrebbe volgere dall’oscurità alla luce se non volgendo
nello stesso tempo il corpo intero, la facoltà di apprendere deve essere
staccata, con l’anima intera, dalle cose periture, finché non diventi capace di
sopportare la vista di ciò che ‘è’ […] Educazione è l’arte di volgere questo
occhio dell’anima’ (Platone, 1966; Repubblica p. 343).

Per i nostri contemporanei, questa svalorizzazione del sensibile a vantaggio
dell’intelligibile è difficilmente accettabile come probabilmente era
già difficilmente accettabile per i contemporanei di Platone (Hadot, 2002);
ma l’interpretazione di Heidegger del pensiero di Platone può meglio aiutarci
a comprendere.

Sull’unitarietà dell’essere umano e sul pensare

L’interpretazione di Heidegger dell’anima di Platone come tensione
ad essere

Nella percezione che avviene attraverso i sensi, scrive Heidegger (1997),
si presenta un vedere, un udire, un gustare; ma chi vede e ascolta e gusta?
Sarebbe terribile se non ci fosse ‘nessuno’ che potesse contemporaneamente
sia vedere, sia udire, sia annusare; se ciò non fosse possibile assisteremmo
ad una parcellizzazione dell’intero essere umano che risulterebbe fatto a
pezzi e lacerato. Si perderebbe l’essenza dell’uomo. Se invece c’è ‘un qualcuno’
e dunque sussiste l’unità dell’essere umano, dovremmo domandarci
come essa sia possibile. Heidegger suggerisce che questa unità la si può
chiamare anima e se usiamo questo termine, dal greco ψυχή, psychè, dobbiamo
intendere con essa esattamente ciò che è definito nei termini greci di
ἰδέα (idea come ‘unità’ e come una certa ‘cosa avvistata’) e non dobbiamo
intenderla in nessun altro senso (ibid). Affinché non si verifichi una terribile
dispersione nei vari percetti è necessario che ci sia appunto qualcosa come
una ‘idea’. Platone con la parola idea intende qualcosa che sta in relazione
con il suo più intimo domandare filosofico, che apre e che guida questo
interrogare e che definisce il senso del ‘pensare’ come un ‘apprendere attraverso’,
‘prendere una cosa attraverso l’altra’. C’è una duplicità cioè un
‘accogliere’ ciò che si mostra ma anche un ‘interrogare’ in relazione a qualcosa.
L’idea sarebbe il tramite per cogliere l’essenza della cosa; in poche
parole, poter dire che una certa cosa è ad esempio un libro, è possibile grazie
all’idea di libro che permette di cogliere l’essenza del libro stesso. Il
pensare, in tal senso, pensa sempre l’essere delle cose, anche senza saperlo,
e ha poco a che fare con il pensare inteso oggi come funzione della ratio;
quest’ultimo non è affatto un pensare inteso nel senso che Platone, proprio
sviluppando la dottrina delle idee, si sforza di definire come l’essenza del
pensare (ibid).
Quindi in breve il significato generale della parola idea può essere inteso
come ‘ciò che è avvistato, e precisamente nel suo essere avvistato’ (ivi. p.
205). Questo vedere e tale vista non devono venire intesi come il vedere sensibile
degli occhi. Questa ‘vista’, ed essa sola, può cogliere qualcosa che ha
un certo aspetto, che è presente in questo o in quel modo nella sua unitarietà.
Questa unitarietà non sorge da, con e attraverso singole percezioni, è
qualcosa che c’è già. Dice Platone che questo ambito unitario di possibile
apprendibilità del percetto, che abbiamo sempre davanti, possiamo chiamarlo
‘anima’. Che cos’è dunque l’anima? L’’anima’ è ciò che prospetta
quest’ambito unitario di apprendibilità, che può percepire e che nel percepire
assume il rapporto percepente/percetto. Infatti, l’anima così intesa ha il
carattere del rapportarsi, è estesa verso; il rapporto è l’anima stessa (ivi, p.
208). L’anima è ciò in base a cui soltanto si dà l’’attraverso’ in forma di
organi attraverso i quali noi percepiamo tutto ciò che in generale è percepibile.
Solo così un corpo fisico può diventare un corpo umano. Il corpo
umano, che sotto un certo aspetto è un corpo fisico, può essere tale soltanto
perché si cala in un’anima; ma non vale il contrario, che cioè un’anima
venga soffiata in un corpo fisico. L’anima non sta a sé e poi, quasi appeso
ad essa, un filo che scende fino alle cose. Anima è un nome per indicare il
rapporto con l’essere delle cose e in un certo senso potremmo dire che ‘l’anima
è il corpo e il corpo è anima’.
Nell’interpretazione del Teeteto di Platone, Heidegger (1997) propone di
immaginarsi sdraiati sul prato mentre si guarda l’azzurro del cielo e si ode
contemporaneamente il canto di un’allodola.

‘Colore e suono ci si mostrano attraverso una ‘veduta’. Apprendiamo entrambi.
Che cosa apprendiamo però in riferimento ad entrambi? Non apprendiamo di
entrambi, attraverso i sensi, che entrambi ‘sono’? Ad esempio, che l’uno, rispetto
all’altro, è sempre un altro, ma rispetto a sé stesso è identico’? (ivi, p. 216).

L’uno, essendo, è per l’altro un oggetto diverso, ma per sé stesso è il
medesimo oggetto. Entrambi vengono appresi come ‘essenti’ e solo su questa
base è possibile apprendere colore e suono come enti diversi e identici,
e solo così apprendiamo anche l’essere uguale e diseguale. Viceversa, se
entrambi ci si danno come diversi, abbiamo già appreso, che lo si sappia o
no, l’uno e l’altro come ‘essenti’. C’è dunque un di più di apprendibile, se
così si può dire, e a questo di più appartiene tutto ciò che è edificabile su
essere e non-essere, essere-identico ed essere-altro e così via tutti i caratteri
concreti che, implicitamente presuppongono sempre l’’essere’. In altre
parole, se dico che un cuscino è bianco non è il bianco il suo essere ma il
poterlo definire bianco presuppone un essere che sta a monte.
Questo apprendimento avviene attraverso l’anima, nel passaggio attraverso
sé stessa. Per apprendere l’essere, il non essere, l’essere uguale, l’alterità
e simili, l’anima passa attraverso sé stessa senza fare uso di una qualche
qualità psichica, essa è in sé stessa ciò che prospetta l’ambito unitario
di apprendibilità. Essa è in sé, in quanto tale, estesa verso altro che le può
essere dato, e si tiene costantemente unicamente in tale tensione, l’anima è
dunque ‘tensione ad essere’ (ibid.).
L’esercizio del pensiero puro riceve da Platone, per la prima volta, un
nome che conserverà in tutta la tradizione antica: ‘la grandezza d’animo’.
La grandezza d’animo è il frutto dell’universalità del pensiero che tende a
pensare e a cogliere l’essere delle cose e tutto il lavoro speculativo e contemplativo
del filosofo diventa così un esercizio spirituale nella misura in
cui, elevando il pensiero fino alla prospettiva del tutto, lo libera dall’illusione
dell’individualità (Hadot, 2002). Scrive Marco Aurelio (1986, p. 134):

‘Non limitarti più a co-respirare l’aria che ti circonda, ma d’ora in poi co-pensa
col pensiero che ingloba tutte le cose. Poiché la forza del pensiero non è meno
diffusa ovunque, non si insinua meno in ogni essere capace di lasciarla penetrare,
che l’aria in colui che è capace di respirarla… un immenso campo libero si
schiuderà davanti a te, poiché tu col pensiero abbracci la totalità dell’universo,
percorri l’eternità della durata’.

È evidentemente a questo livello che si può dire che si muore alla propria
individualità per accedere insieme all’interiorità della coscienza e all’universalità
del pensiero del tutto che, come cercherò di dimostrare, è coglimento
dell’essere.

Essere per la morte

Per quale motivo possiamo considerare importante indagare il senso esistenziale
della morte, del giungere alla fine dell’essere umano?
È mio obiettivo portare alla luce il senso profondamente evolutivo insito
nel processo di scoperta della propria morte come evento possibile.
Sono necessarie alcune premesse: i) il significato di ‘esistenza’ in senso
etimologico non equivale a quello di ‘realtà’ come l’ontologia tradizionale
basata sul concetto di ‘essere come semplice presenza’ ha sostenuto nei
secoli: esistenza significa ‘possibilità d’essere’; ii) consideriamo sinonimi i
temini ‘esserci’ ed ‘essere umano’ e così anche i termini ‘oggetto’ ed ‘ente’.
L’Esserci, fintanto che è, porta con sé un ‘non-ancora’ che sarà, una
costante mancanza, una ‘non totalità’ a cui solo la morte pone termine e, per
altro l’Esserci esiste già da sempre in modo tale che il suo non-ancora gli
appartiene se pur tuttavia deve divenire, cioè essere ciò che ancora non è
(Heidegger 1971). Un esempio concreto renderà comprensibile quanto
affermato: il frutto immaturo va verso la maturazione. Ma in questo processo
di maturazione, ciò che ancora non è, non si aggiunge gradatamente
come qualcosa di non-ancora presente. Il frutto stesso va verso la maturazione
in modo tale che questo andare-verso caratterizza il suo essere in
quanto frutto. Qualunque cosa venisse aggiunta non potrebbe, come tale,
eliminare l’immaturità del frutto, se questo non procedesse da solo verso la
propria maturazione. Il non ancora dell’immaturità non significa il mancare
di qualcosa di estrinseco che, indifferente al frutto, potrebbe essere semplicemente
aggiunto ad esso. Il non-ancora costituisce il frutto nel suo modo
di essere specifico. Il frutto stesso, quando è in maturazione è l’immaturità.
Il non-ancora è già incluso nel suo essere, e non accidentalmente, ma come
suo elemento costitutivo. Allo stesso modo, l’Esserci, fin tanto che è, è già
sempre il suo non-ancora, la sua possibilità d’essere in quanto esistente.
Ciò che costituisce la ‘non totalità’ nell’essere umano, il suo permanente
avanti-a-sé, non è qualcosa di non-ancora-divenuto-accessibile, ma un non
ancora che l’Esserci, in quanto è l’ente che è, ha sempre da essere (ibid.).
Possiamo ora intendere la morte come la fine dell’Esserci? Sì ma con alcune
precisazioni fondamentali. La morte dell’Esserci non può essere caratterizzata
da un finire valido per altri oggetti connotati come semplici presenze,
non è cioè un dissolversi, un venire ultimato; la morte dell’essere umano non
è adeguatamente caratterizzata da nessuno di questi modi del finire.
L’Esserci, allo stesso modo che, fintanto che è, è già costantemente il
suo non-ancora, è anche quindi già sempre la sua fine. Il finire proprio della
morte non significa un essere alla fine dell’Esserci, ma un essere-per-la-fine
da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume
non appena è. L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire e
tale fenomeno si colloca sul piano esistenziale (ibid.).
La morte non è affatto qualcosa di non ancora attuato, non è un mancare
ultimo, ma è, prima di tutto, un’imminenza esistenziale che incombe, il
modo di essere in cui l’essere umano è per-la-sua-morte.
Ogni Esserci deve assumersi sempre in proprio la morte. Nella misura in
cui la morte ‘è’, essa è sempre essenzialmente la ‘mia’ morte che deve essere
assunta in proprio, da sé. In questa possibilità è in gioco per l’Esserci il
suo essere puramente e semplicemente nel mondo. La morte è per l’esserci
la possibilità di non-poter-più-esserci (in senso esistenziale) e poiché in
questa sua possibilità l’Esserci incombe a sé stesso, esso viene completamente
rimandato al suo potere-essere più proprio. Questa possibilità,
l’Esserci non se la crea però occasionalmente nel corso della sua vita. Se
l’Esserci esiste, è anche già ‘gettato’ in questa possibilità. Tendenzialmente
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l’Esserci non ha alcuna ‘conoscenza’ esplicita o addirittura teorica di essere
consegnato alla morte e che perciò essa fa parte del suo essere-nel-mondo.
L’essere gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante
nella situazione emotiva dell’angoscia (ibid).
L’angoscia davanti alla morte è quindi angoscia ‘davanti’ al potere essere
più proprio. Il poter essere più proprio potrebbe forse generarsi anche
davanti ad altre esperienze, come ad esempio un rispecchiamento ben riuscito
di sé che potrebbe generare un circolo angosciante di scoperta del proprio
essere nel mondo; infatti, l’essere umano si angoscia nello scoprire il
suo essere nel mondo e il suo ‘poter essere puro e semplice’ che è inevitabilmente
anche ‘essere per la propria morte’. L’angoscia non deve essere
confusa con la paura del decesso essa non è affatto una tonalità emotiva
depressiva, contingente, casuale del singolo; in quanto situazione emotiva
fondamentale dell’Esserci, essa costituisce l’apertura dell’Esserci al suo
esistere come essere gettato per la propria fine nel potere essere più proprio
ed autentico. Si fa così più netta la differenza tra l’essere-per-la-morte
rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e infine all’’esperienza
vissuta’ del decesso.
L’essere-per-la-fine non è il risultato di deliberazione improvvisa e saltuaria,
ma, ribadisco, fa parte in modo essenziale dell’essere nel mondo
dell’Esserci, che si rivela grazie all’angoscia (ibid). La constatazione che di
fatto molti uomini perlopiù non sanno alcunché della morte in tal senso, non
può essere addotta a prova che l’essere-per-la-morte non appartiene universalmente
all’essere umano, ma vale piuttosto come prova del fatto che
l’Esserci, mediamente, copre questo vissuto fuggendo davanti ad esso e rifugiandosi
in una vita inautentica, banalizzando l’angoscia come paura e debolezza
che un essere umano sicuro di sé non dovrebbe avere (Heidegger, 1976).

L’esperienza metafisica

Abbiamo visto con Heidegger che attraverso l’angoscia si realizza il
potere essere più proprio, il coglimento quanto mai reale del proprio essere
nel mondo e quindi il ‘poter essere’ puro e semplice dell’essere umano;
potremmo anche dire: ‘il ritrovarsi nel proprio essere che semplicemente è’.
Sarà interessante ora, appoggiandoci al pensiero di Elèmire Zolla (2016)
esplorare l’eventuale processualità di tale angoscia e con essa il divenire del
puro e semplice essere che semplicemente è, qualora si giunga ad esso.
Quando il percepire e il percetto, il soggetto e l’oggetto, si fondono e
assorbono reciprocamente, avviene ciò che si può definire ‘esperienza
metafisica’ (ibid). Questa esperienza è ben rappresentata nella poesia, ad
esempio è il mare in cui dolcemente naufraga il Leopardi dell’Infinito e
della Vita solitaria (2016):

‘ond’io quasi me stesso e il mondo oblìo
sedendo immoto; e già mi par che sciolte
giacciano le membra mie, né spirito o senso
più le commova, e lor quiete antica
co’ silenzi del loco si confonda’.

‘Esperienza metafisica’, che è soltanto un nome che non va scambiato
con la cosa, è una enunciazione che Elèmire Zolla (2016) adotta per definire
questo ‘confondersi dell’io con l’essere’, che Leopardi, grazie ad una mirabile
sintesi poetica, ci permette di intravedere nell’esistenza.
L’esperienza metafisica è conseguibile solo disancorandosi da tutto ciò
che normalmente tiene vincolati ad un’esistenza che si fonda sulla realtà
dell’ego cogito, per arrivare ad abitare e-staticamente nella verità dell’essere,
dove regna la semplicità (Heidegger, 1976), e dove l’essere umano
‘unificato’ può affermare ‘sono’, ma non più ‘sono questo’, ‘sono quello’;
non perché abbia subito una perdita, al contrario, ha ottenuto un vertiginoso
accrescimento, infatti quando ‘io sono’ può divenire ‘io sono l’essere’,
assistiamo al fluire del contatto con il semplice e puro essere destrutturando
e lasciando entrare il pensiero in un domandare capace di esperire
e di lasciarsi coinvolgere nella ‘cosa’ del pensiero, abbandonando il timore
di infrangersi contro ‘la cosa’ stessa e di naufragare: c’è un abisso tra
il ‘filosofare’ sul naufragio e il lasciare che il pensiero effettivamente naufraghi
(ivi, p. 75). Contemporaneamente si supera la dicotomia soggettooggetto
per andare oltre, dove le sensazioni del mondo sussistono, ma
l’individuo non le subisce, non le contrasta, nota semplicemente come
affiorino e come dileguino, senza intervenire con sentimenti e giudizi,
senza contaminarli con chiacchiere e commenti (Zolla, 2016);

‘E la verità dell’essere potrà forse giungere al linguaggio e che il pensiero ne sia
l’espressione e a quel punto forse il linguaggio diverrà ‘silenzio’ e non precipitoso
enunciante chiacchiericcio’ (Heidegger, 1976).

Scrive Plotino (1997, p. 285):

‘Tu eri già il tutto, ma, poiché qualche cosa ti si è aggiunta in più del tutto, tu
sei diventato minore del tutto per questa aggiunta stessa. Tale aggiunta non
aveva nulla di positivo (infatti che cosa si potrebbe aggiungere a ciò che è
tutto?), era interamente negativa. Chi diventa qualcuno non è più il tutto, gli
aggiunge una negazione. E ciò dura finché non si scarti tale negazione.
Dunque, tu ingrandisci rimuovendo tutto ciò che è altro dal tutto: se lo rimuovi,
il tutto ti sarà presente… Ha bisogno di venire per essere presente. Se non
è presente, è perché tu ti sei allontanato da lui. Allontanarsi, non significa
lasciarlo per andare altrove, poiché è lì; ma voltargli le spalle, quando è
presente’.

e ancora:

‘Si deve evitare di pensare a una forma determinata, spogliare l’anima di ogni
forma particolare, scartare tutte le cose. Allora si compie, in un lampo fuggevole
la metamorfosi dell’io: ‘allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché,
in quell’istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in
qualche modo è diventato altro, non è più sé stesso né a sé stesso ma è uno con
l’uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro’ (ivi, p. 435).

Possiamo notare una sorta di esplosione e perdita totale dell’individualità.
Quando ci si identifica col cosmo, si supera l’innato astratto terrore che
sta alla radice del nostro essere, si estirpa il tormento che nasce dal sentirsi
circondati da un universale, indistinto, terrificante spaesamento e senso di
alienità. Soltanto diventando tutt’uno con il cosmo, si può uscire dall’angoscia.
Pena la caduta in diagnosi psichiatriche o, ancora più semplicisticamente,
l’attribuzione della causa di questo tormento ad un insoddisfatto
bisogno d’amore; è bene precisare che l’unico amore adeguato è quello che
cancella la persona, per certi aspetti annullandola, e la fonde nel cosmo
(Zolla, 2016).
Mi pare che in queste riflessioni si possa cogliere il seme del possibile
divenire a partire dalla ‘gettatezza’ Heideggeriana e dall’angoscia legata al
contatto con il proprio puro e semplice essere.
Ma proseguiamo volgendo lo sguardo verso altre culture e altri mondi.
Le nostre convenzioni escludono dalla norma l’abitudine di entrare in
stati psichici differenti, come la trans che consente ai balinesi di penetrare
col Kriss la propria carne senza che fuoriesca sangue, o come accade in
alcune pratiche dell’India del sud, grazie a cui ci si trafigge senza dolore e
si cammina liberamente sulle braci ardenti (ibid.). Gran parte delle nostre
certezze e convinzioni crollano se osserviamo certi fenomeni, come ad
esempio la salda idea che esista una netta e oggettiva demarcazione tra
sanità e malattia. Semmai possiamo definire la salute fisica come lo stato
del corpo che consente alla psiche di aprirsi a una pura consapevolezza
dell’essere, e della psiche, a sua volta, si può dire che goda di salute allorché
tenda spontaneamente a tramutarsi in tale consapevolezza. Jung (2004)
notava che i buddisti favoriscono le allucinazioni, facendone complesse
opere d’arte, pur di spezzare il giogo di una illusoria ‘sanità coerente con il
mondo’ e sosteneva che persino le dissociazioni mentali e gli stati schizoidi
possono far parte della meditazione.
Secondo l’ottica dell’esperienza metafisica, le infermità mentali sono
spesso soltanto il segno che si è osato sollevare quesiti profondi riguardo
l’essere nel mondo senza rendersene ben conto, senza individuarne la formulazione
giusta. La malattia è come un’ombra dietro cui c’è l’illuminazione;
il folle ha osato bussare alla porta che apre sui gradi superiori dell’essere
e sconta l’audacia di averli intravisti da impreparato. La distanza dell’esperienza
metafisica dalla vita ordinaria può atterrire, o forse sempre atterrisce
come ci indica Heidegger (1971) attraverso il senso dell’angoscia. Quando
è svelato il possibile senso illuminativo delle ossessioni e delle coazioni, si
vede la malattia come una sequenza di significanti ai quali è sottratto il
significato e che di conseguenza apre le porte della ‘significatività’ che sta
prima dell’opposizione significante/significato. Si, perché la condizione di
presenza al puro e semplice proprio essere, è il luogo della ‘significatività’,
la base da cui l’uomo inizia a ‘significare’ il mondo dando espressione
all’essere (Milanesi, 2022) e così edificando il suo proprio modo di essere
nel mondo, il suo ‘costrutto identitario’, dietro il quale si cela il puro e semplice
essere, al cui contatto ci si atterrisce perché esso è l’altra faccia della
medaglia del ‘nulla’, a sua volta scaturigine dell’essere; quindi qualsiasi
esperienza fenomenica di contatto a questo livello, espone al terrore del
‘nulla’, terrore di non esistere. Così la psicosi potrebbe venire considerata
come un accesso a questo livello dell’essere e quindi come un’inconsapevole
richiesta di conoscenza che costringe il paziente e chi gli sta accanto
ad affrontare questioni che la normale vita ordinaria soffoca e nasconde.
Qualcuno parla di ‘Psicosi Implicita’ o ‘Psicosi Bianca’ (Green, 1992)
fondata su ‘assetti psichici’ orientati ad una iper-normalizzazione come
stato, analogo all’angoscia, costitutivo ed ineliminabile dell’essere umano.
L’alternativa ‘folle’ è che il folle sia là fuori (Riva, 2022).
La verità non dualistica sembra il caos, e si erigono difese per nasconderlo
alla vista. Quando una fessura si apre nelle difese e si intravede al di
là di esse la realtà metafisica, ci si precipita a colmarla con un’ideologia o
un delirio. Ma per un istante qualcosa si è pur visto, una rivelazione è stata
largita, una finestra è stata aperta. Il paranoico nel momento in cui intuisce
il suo rigido ‘sistema del mondo’, lo schizofrenico che per la prima volta si
lascia andare al suo incanto trasognato cogliendo che è il ‘suo delirio’, possono
entrambi sentire il brivido della rivelazione, come Dostoevskij nell’aura
dei suoi attacchi epilettici (Zolla, 2016). Se in seguito guariscono, la
verità emerge come il pilastro immobile della quiete che è anche la fonte da
cui scaturisce ogni possibile sovvertimento, l’Unità. I disturbi mentali sono
forse tentativi di sondare l’unità? L’apatia dello schizofrenico potrebbe
essere la reazione paradossale al quesito lacerante di quanto si possa essere
aperti alle suggestioni del mondo esterno. La paranoia sarebbe garanzia di
una circolarità ricorsiva a spiegazione dell’universo. I deliri metterebbero
ordine nel caos dell’esistenza. Il paziente che avverte come alieni i suoi processi
mentali e si sente attraversato e invaso da pensieri che paiono forze
estranee lanciate nei suoi spazi interiori, sarebbe ad un passo dall’illuminazione
in cui i processi mentali possono diventare oggetti fra gli altri del
mondo esterno (ibid.). La perdita del senso di identità rappresenta un passo
verso l’esperienza metafisica: basterebbe risolvere l’angoscia e lo spaesamento
che l’accompagnano. Lo straniamento tipico di certe malattie mentali
potrebbe fornire un ottimo abbrivio all’esperienza metafisica. Le contratture
o convulsioni isteriche non rendono forse il corpo anestetizzato come
nelle pratiche indiane di cui dicevo più sopra? Manca ad esse soltanto il fine
metafisico. La schizofrenia dischiude profonde verità metafisiche, come ad
esempio il fatto che l’Unità conferisce unità alle minime parti dell’esistente
(ibid.); le cose non sussistono per sé stesse ma in virtù dell’unitarietà che
ontologicamente le precede e su di esse si proietta (Heidegger ci ha insegnato
che l’essere delle cose precede la cosa semplicemente presente, che è la
conditio sine qua non del sussistere della semplice presenza stessa)
(Milanesi, 2022). Se questi stimoli non sono familiari, il paziente è sopraffatto
dallo sgomento quando ad esempio non percepisce il volto davanti a
sé come una totalità complessiva ed espressiva ma vede soltanto un occhio,
un ciuffo, un lobo, un poro e resta attonito inerte o trema di paura di fronte
a quei particolari che giganteggiano e lo soverchiano (Zolla, 2016).
A questo punto può essere interessante provare ad individuare una traccia
di connessione tra quanto detto finora a livello fenomenologico esistenziale
e ciò che possiamo chiamare ‘pensiero psicologico’. Forse la psicologia,
intesa come cura psicoterapica, la cura con la parola, è nata perché la
filosofia ad un certo punto del suo evolvere storico ha abbandonato il senso
delle sue origini antiche e, da pratica di vita ed esercizio spirituale, è diventata
il mestiere dell’insegnamento e della sistematizzazione teorica del
mondo, disinteressandosi della vita stessa per divenire solo conoscenza teorica
e assestarsi su un terreno che oggi le scienze, di giorno in giorno, erodono.
La filosofia ha dunque evaso la domanda a cui da sempre l’essere
umano chiede risposta, la domanda di senso del proprio essere nel mondo,
della propria esistenza, del proprio nascere, crescere, lavorare, produrre,
consumare, invecchiare e morire; un ciclo di vita che spesso scorre senza
che venga individuata e seguita una traccia profonda di sé in cui riconoscersi
e che porti a dire: ‘io ho scelto di vivere così’ e a ‘ciò ho dato espressione
con la mia vita’. Di tale mancanza ognuno soffre e forse in tale sofferenza
è possibile rintracciare l’apertura che conduce alla problematizzazione del
senso della propria esistenza; problematizzazione a cui saremmo anche portati
naturalmente dato che siamo forniti di una coscienza, ma invece viviamo
vite irriflesse a cui non prestiamo la minima attenzione, ottundendo la
presenza a noi stessi con il lavoro e l’evasione che la società, con mille
modi, ci rende possibile oppure la lasciamo nel dolore di una domanda
senza risposta.
Nel primo caso la questione rimane sotterranea e nessuno si occupa di
noi anche perché noi per primi non ci occupiamo di noi stessi; lavoro, consumo,
famiglia, sesso, calcio, TV, Facebook, Instagram ecc., e la vita passa
senza troppe domande.
Nel secondo caso, quando la domanda di senso non ci abbandona e si
ripropone, in modo esplicito o attraverso crisi di vario tipo, ecco allora che
una possibile risposta arriva attraverso il così detto ‘pensiero psicologico’
che tende a mio avviso a classificarci e rubricarci nella psicopatologia.
Quindi o si va in farmacia a comprare qualche antidepressivo, su indicazione
medica naturalmente, o si va in psicoterapia; rispettivamente: o per
adattare sé stessi al mondo in cui viviamo, dal momento che non si può
cambiare il mondo, o per cercare sé stessi e cosa nella nostra vita emotiva
è causa di dolore.
Ora, nessuno sa dare risposta al ‘senso della vita’ ma un conto è non
avere risposte, un conto è allontanarsi dal vero problema che affonda le sue
radici proprio in questo grande dilemma esistenziale all’interno del quale ci
si potrebbe avventurare riconoscendolo quantomeno come origine del disagio
manifesto; e altro conto è muoversi al livello della concretezza della
risoluzione del disagio stesso e della sofferenza sintomatologica, trattati
come fastidiosi limiti ad una ‘vita felice’ invece che manifestazioni di significati
più profondi.
Attraverso più forme di psicoterapie il ‘pensiero psicologico’ propone il
suo intervento. Questo intervento varia da proposte di adattamento (cognitivismo)
che invita ad aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie dissonanze
cognitive in modo da armonizzarle al contesto in cui ci si trova a
vivere, a proposte di adeguamento delle proprie condotte (comportamentismo)
volte nella medesima direzione di adeguamento; ciò indipendentemente
dai propri sentimenti e dalle proprie idee e dai propri vissuti che, se
difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato e coltivati come tratto
originale della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. Si
viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’autenticità, l’essere
se stesso, il conoscere se stesso, che l´antico oracolo di Delfi indicava come
la via della salute dell´anima, diventa qualcosa di patologico, così come
l´esser centrati su di sé o la scarsa capacità di adattamento, problematiche a
cui il comportamentismo e il cognitivismo sanno dare risposte concrete
attraverso l’acquisizione di tecniche che riposizionano l’uomo al livello
delle performance che la società richiede. Appare evidente quindi che ‘essere
sé stessi’ e non rinunciare alla specificità della propria identità risulta
patologico. In effetti sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto
psicologie del conformismo, assumono come ideale di salute proprio
quell´esser conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto
tipico della malattia. Da parte loro le persone fanno propri i modelli su cui
poggiano il cognitivismo e il comportamentismo, e così respingono qualsiasi
processo di approfondimento individuativo che risulti non funzionale al
mondo in cui si vive.
La psicoanalisi, o forse dovremmo dire ‘le psicoanalisi’, anch’esse quali
espressioni del ‘pensiero psicologico’, si muovono invece verso la ricerca
di sé, del proprio sé profondo. Possiamo dire, in estrema sintesi, che fanno
ciò attraverso la comprensione di quanti imbrogli abbiamo fatto con noi
stessi per cercare compromessi tra i nostri irrinunciabili desideri e i limiti e
le richieste che ci vengono dall’esterno e a cui non possiamo sottrarci, riper-
correndo in un certo qual modo la storia dei nostri progressivi, profondi e
impliciti movimenti adattativi. Se un’analisi procede bene, getta luce su ciò
ma anche su qualcosa che non si vuole o non si può accettare di sé, su ciò
che è ‘compensativo’ di nostre debolezze che mai abbiamo voluto prendere
in considerazione, e anche, infine, su ciò che è veramente ‘espressivo’ di noi
stessi e che ancora non abbiamo avuto il coraggio di esprimere. Tutte le psicoterapie,
se ben condotte, raggiungono l’obiettivo, sia per chi non vuole
andare a fondo di sé ma si accontenta semplicemente di trovare un buon
adattamento nel mondo, sia per chi vuole comprendere qualcosa di sé indipendentemente
dai problemi di adattamento. Ad ogni modo, più si procede
nella conoscenza profonda di sé, per quanto si possa essere più o meno adattati
alla società e aver superato questo o quel dolore sintomatologico, e più
si entra in contatto con l’essenza stessa del dolore che mai potrà scomparire
ma solo venire ‘accettato’ perché connesso al senso della propria esistenza,
del proprio ‘essere gettati nel mondo’. Per chi tocca questo livello profondo
non c’è rimedio in farmacia e forse neppure nelle psicoterapie e nelle psicoanalisi.
Nessuno di noi abita il mondo in quanto tale, ma abita invece solo
‘la propria visione’ del mondo; l’Esser-ci, infatti, è ‘essere nel mondo’. E
non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a
una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro
modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. La psicoterapia può occuparsi
di ciò? È possibile rintracciare ciò dietro e dentro una richiesta di aiuto
psicoterapeutico? Certo tale eventuale richiesta può manifestarsi in infinite
forme e non dovrebbe mai essere rubricata e classificata nella psicopatologia
in senso nosografico. Chi pone una tale domanda, che a guardar bene è
la quasi totalità del genere umano, non è ‘malato’, è solo alla ricerca di un
senso. Interessante sarebbe studiare le possibili evoluzioni delle psicoterapie
(soprattutto quelle ad orientamento psicoanalitico) verso forme di ‘cura
esistenziale’. In fondo questo scritto vorrebbe essere un primo piccolo passo
in questa direzione.
Sarebbe altresì interessante approfondire dettagliatamente una rilettura
della psicopatologia in ottica fenomenologica ed esistenziale, cosa che in
questo scritto ho potuto solo abbozzare ma non sviluppare; sarebbe un lavoro
monumentale, ma qui basti ribadire che al fondo di ogni possibile disagio
alberga sempre, a mio avviso, una questione legata al proprio ‘essere nel
mondo’ quale origine del senso dell’essere stesso.
Quindi, perché la psicopatologia (anche quella nosografica) e la visione
fenomenologico-esistenziale non restino confinate come due differenti e
non conciliabili ermeneutiche, sarà necessario porre in chiara evidenza che
c’è un sotteso senso dell’essere della psicopatologia (classicamente intesa)
che viene fraintesa come essenza stessa della psicopatologia mentre invece
ciò che chiamiamo psicopatologia, come sostenuto in questo scritto, è, nella
sua essenza, disagio esistenziale non ancora colto come tale.

Veglia e sonno

Sul discrimine tra veglia e sonno, al risveglio o nel sopore, aleggia al di
sopra sia della veglia che del sogno una traccia del proprio essere dormiente,
persiste o si preannuncia questo torpore come un essere indeterminato,
unificato, universale, oltre ogni identificazione e privo di emozioni, siano
esse positive o negative, e tuttavia con una sua consistenza: un ‘come’ piuttosto
che un ‘qualcosa’. Ecco, l’esperienza metafisica può anche essere
vista come lo scorrere di questo vissuto in qualche modo presente nel sonno
senza sogni (ibid.).
A ben vedere la veglia è compenetrata di sopore: essa occhieggia in
modo discontinuo su un fondo di sonno. Sia un normale lavoro che un’opera
ispirata si eseguono in modo trasognato, rapito, da ‘addormentati’. Dove
si è quando si è in questo stato di apparente non-presenza a sé stessi? Si può
essere molto efficienti pur essendo, apparentemente, altrove, lucidi al di là
dell’attenzione riflessa. Nell’impeto entusiasta si potrebbe affermare che la
veglia più intensa combacia col sonno profondo. Capita di esclamare: ‘ho
perso la nozione dello spazio e del tempo’, luogo comune degli innamorati,
di alcuni sportivi durante certe performance, degli artisti, forse anche dello
psicoanalista in procinto di cogliere il paziente nella sua essenza o di chiunque
sia così assorto in ciò che vive da agire come un sonnambulo preso nel
proprio rapimento estatico; termine quest’ultimo che indica lo ‘stare fuori’
che per Heidegger (1971) è il senso dell’esistenza stessa, l’ex-sistere della
vita umana nel suo carattere ‘estatico’ cioè di essere esposta al suo ‘non
ancora’; vale a dire che nell’estasi si è in una condizione di ‘possibilità d’essere’.
Che dunque questo ‘io del sonno’ sia l’identità ideale? Liberandoci
dell’idea che l’autocoscienza sia superiore all’abbandono e alla possibilità?
D’altronde l’essere precede ontologicamente la coscienza e quante volte
possiamo scoprirci, come psicoanalisti in seduta ma anche nella vita di tutti
i giorni, una volta tolti i rumori della ragione, immersi nei pensieri onirici
della veglia (Bion, 1967) che sempre, lontani e lievi ci accompagnano costitutivamente
come possibilità d’essere.

‘Nell’esperienza metafisica persiste un essere che eccede di poco la condizione
del sonno profondo, a cui si va asintoticamente avvicinando’ (Zolla, 2016; p. 47).

Chi si concentra nella meditazione, gli occhi chiusi, sprofondato nel vissuto
dove il tutto e il nulla si con-fondono, non è dissimile da chi venera la
natura, rapito con occhi sgranati in ‘estasi’ nel paesaggio, inghiottito, annullato
nello spazio. In entrambi i casi cessa l’identificazione con il modo d’essere
quotidiano e via via che ci si dis-identifica, risulta difficile distinguere
un internarsi o all’opposto un proiettarsi nell’esteriorità, o dire se gli oggetti
siano situati dentro o fuori dell’epidermide. L’adorazione della natura è
l’esperienza metafisica nella quale, pur sussistendo una certa separazione dalla
natura, non c’è differenza di significato tra perdersi nello spazio interiore o
nell’esteriore (ibid.). Nel volgere l’attenzione e dirigersi verso gli oggetti che
stanno nel cosiddetto mondo esterno, l’essere umano non esce da una sua
sfera interiore, in cui sarebbe dapprima chiuso; l’Esserci, in virtù del suo
modo primario di essere, è già sempre ‘fuori’ presso l’oggetto che incontra
in un mondo già sempre aperto. Soffermarsi presso un ente da conoscere non
è un abbandono della sua sfera interna, poiché, anche in questo essere fuori
presso l’oggetto, l’Esserci é, a ben intendere, dentro: cioè esiste come essere
nel mondo che conosce. E, di nuovo, l’acquisizione del conosciuto non è un
ritorno nel ‘recinto’ della coscienza con la preda conquistata, poiché anche
nell’apprendere, nel conservare e nel ritenere, l’essere umano conoscente, in
quanto Esserci, rimane fuori (ex-sistere) (Heidegger, 1971).
La fusione può essere descritta come un’immersione nell’interiorità o
come un perdersi nella natura esterna e il soggetto la potrà vivere come uno
stato di quiete beata e trasognata o come un faticoso traguardo o in altri
modi ancora ma in sé e per sé è una nuda, pura presenza.

‘Presenza di chi? Una nuda presenza non è un ente trincerato in sé stesso, nella
sua separatezza: è tutti e nessuno. Presenza a chi? A un’altra nuda presenza, che
la specchia e ne è specchiata, e che è la totalità dell’essere, il cui corpo è l’universo,
la cui creazione è la natura’ (Zolla, 2016; p. 48).

Sarebbe interessante approfondire le differenze e la distanza di questa
idea di presenza dal concetto di ‘presenza’ in Michele Minolli (2015); non
è l’obiettivo di questo lavoro e qui mi limito semplicemente a dire che la
presenza in senso minolliano mantiene costantemente il referente nell’Iosoggetto
(ibid.), forse per timore di ‘perderlo’; ma così facendo non apre le
porte al divenire nell’essere che semplicemente è e che alberga fuori da ogni
distinzione dicotomica tra soggetto e oggetto e fuori da una comprensione
fondata sul logos e sulla ratio; forse bisognerebbe parlare di ‘presenza d’essere’
e non di ‘presenza a sé’.
Questa appena abbozzata differenza meriterebbe un approfondimento
dedicato, qui può essere utile accennare ad un punto di vista ‘temporale
sulla presenza’. Si può stare di fronte alla semplice presenza anche solo per
il gusto di stare e nulla di più; questo sarebbe il fenomeno della ‘curiosità’
nel suo senso essenziale. In esso l’attrazione del nuovo è, sì, un venire
sospinti verso qualcosa di non ancora visto, ma in modo tale che la presenza
(nel senso del tempo presente) cerca di sottrarsi ad ogni possibile aspettativa.
In tal senso la curiosità si riferisce in modo del tutto inautentico alla
‘possibilità d’essere’ (che è implicitamente e nella sua essenza riferita al
futuro) in modo tale che non si aspetta una ‘possibilità’ ma, nella bramosia,
si crea una ‘falsa presenza’ fondata nell’aspettativa di qualcosa ma è un
qualcosa da cui si sfugge continuamente. (Heidegger, 1971).

C’è dunque una modificazione dell’aspettativa in un continuo inseguire,
modificazione che ha luogo mediante un tempo presente che scappa via; questa
è la condizione esistenziale temporale della possibilità della dispersione
dove non si è mai sé stessi. Una sorta di incapacità dispersiva a soffermarsi
che si impiglia in se stessa e assume il carattere del non-esser-mai-ferma.

‘Questo modo del presente è il fenomeno diametralmente opposto all’’attimo’.
In quello l’Esserci è ovunque e in nessun luogo. Questo, invece, porta l’esistenza
nella situazione e apre il Ci autentico…’ (ivi, p. 650).

‘A produrre la curiosità non è la distesa senza fine di ciò che non si è ancora
visto, ma la forma deiettiva di temporalizzazione propria del presente che scaturisce
fuggendo via…’ (ivi, p. 651).

Gettato nell’essere-per-la-morte, l’Esserci, tende a fuggire davanti a
questo suo essere gettato per come lo coglie. Il presente scaturisce fuggendo
via dal suo avvenire autentico e dal suo essere stato autentico, cioè, essendo
travolto nell’essere-gettato nel mondo, si perde presso il ‘mondo’; un fenomeno
che chiamerei ‘fuga nel presente’.

‘Il presente, che costituisce il senso esistenziale del coinvolgimento travolgente,
non raggiunge mai da parte sua alcun altro orizzonte estatico, a meno che, nel
decidersi, si riprenda dalla perdizione e possa, mantenendosi nell’attimo, aprire
la rispettiva situazione e con essa la ‘situazione-limite’ originaria dell’essereper-
la-morte’ (ivi, p. 651 652).

Sarebbe interessante, ma non è qui possibile, fare degli approfondimenti
in ordine alle ricadute cliniche di questo fenomeno di fuga nel presente ed in
particolare sul senso del ‘qui ed ora’ degli ‘attimi’ della seduta tra paziente e
analista.
L’esperienza metafisica non è forse la presa d’atto dell’Esserci, che,
ricordiamolo, sempre può avere a che fare con il proprio essere, del suo
essere nel mondo come condizione originaria a partire dalla gettatezza colta
nel presente? Nell’esperienza metafisica sarebbe superata l’angoscia che,
‘spaesando’ apre l’Esserci mettendolo a nudo di fronte al suo proprio essere
nel mondo in quanto tale.
Ho parlato più sopra di ‘costrutto identitario inconscio’ cioè il risultato della
stabilizzazione di un modo di essere e di stare nel mondo in seguito ai significati
dati a partire dalla gettatezza heideggeriana e dal nulla; non dobbiamo però
intendere l’identità come qualcosa di ultimo che possa costituire un’essenza, si
tratta sempre e comunque di un ‘contenuto’ di cui possiamo dire che ‘è mio ma
non è me’. C’è l’essere e c’è ‘l’essere che è’ (l’anima che è tensione ad essere);
J.G. Fichte (Zolla, 2016) cominciava le lezioni esordendo:

‘Signori, guardino il muro!’. E dopo una pausa: ‘signori, guardino sé stessi che
guardano il muro!’

Forse tra gli ascoltatori qualcuno poteva sorprendersi quale testimone
disincarnato e pensare: ‘chi sta guardando il muro?’. Potremmo dire che
una volta che l’essere che è, l’anima nella sua tensione ad essere, ha ottenuto
il distacco, segue la quiete; questo stato il cui referente è l’essere,
puro testimone che ‘è’, attraverso la sua mera presenza agisce ma, al
livello del ‘costrutto identitario inconscio’, può scatenarsi il terrore angoscioso
(anziché regnare la quiete) a causa dell’imminenza della perdita
dell’identità stessa; se non c’è sufficiente equilibrio non si regge quella
distanza che diviene intollerabile. L’anima è ciò che nel corpo e nel sé
dell’uomo, incessantemente ripete: ‘io non sono questo corpo, quest’identità,
questi contenuti’. Questi umori, sentimenti, immagini, pensieri
sono esterni a me ‘sono miei, non sono me’; questa semplice affermazione
di verità condurrà la separazione dell’anima (dell’essere che è)
dai contenuti tra cui, ribadisco, annoveriamo anche la stessa identità
inconscia.
È facile intravedere in queste esperienze, che annunciano la perdita
della propria individualità, vissuti che la psicopatologia ascrive a fenomeni
di de-realizzazione o di de-personalizzazione, travisandone i significati
profondi legati all’essere-nel-mondo che evidentemente assumono toni e
dimensioni differenti se studiati dal punto di vista fenomenologico ed esistenziale.

Conclusioni

C’è un passaggio processuale nell’esistenza: il tramite è proprio l’angoscia
e le due sponde attraverso cui si transita sono il mondo chiuso in
sé e il mondo ‘universale’; nel primo mondo l’altro è in funzione di sé, nel
secondo l’altro è, inizialmente per sé stesso, successivamente, nella processualità,
l’altro è perso così come viene perso il sé stesso nel senso che
non esiste più un referente che ‘perde o che tiene’ e che sta al ‘centro’ ma
entrambi si è parte di un tutto che ‘é’; l’altro è perso insieme a sé ed
entrambi stranieri ritrovati, liberi di potere essere.
Ci si può ‘disimpegnare’, disingaggiare’, ‘emanciparsi’ dall’altro attraverso
‘formule’ che sottendono false ‘separazioni’, dove cioè si è sempre ‘in
funzione’ dell’altro, per opposizione o per rimozione o scissione; possibilità
differente è tenere l’altro nella prospettiva del Tutto e dell’essere universale
come anche i filosofi antichi hanno indicato.
Per fare ciò è però necessario spezzare la tendenza a cercare certezza
nella presenza dell’altro, dell’oggetto; ma rinunciare a ‘credere’ negli
oggetti implica l’abbandono della nostra soggettività, del ‘costrutto identitario
inconscio’. Soltanto scartando la nostra forma e il nostro nome,
attingiamo il vero, come spiega Shakespeare (1997) in Riccardo II:

‘qualunque cosa io sia,
né io né nessuno che sia soltanto un uomo
sarà mai soddisfatto di niente, finché
non sia placato dall’essere niente’.

o ancora Edmond Jabès (1989):

‘Dovevo capirlo, seguirlo passo passo, nella sua erranza da accattone e per riuscirci,
dovevo cancellare con un tratto di penna la mia vita; poiché l’ascolto
esige a suo vantaggio l’abbandono di sé.
-La rinuncia a sé stessi?
-L’uniforme cancellazione del corpo e dell’anima. Raggiungere il niente.
-Per dissolverti nel niente e sparire per sempre?
-Contare sul niente. Essere finalmente nessuno. Ritrovare l’origine che è il
vuoto. Ripartire da zero.
Il niente è la chiave. Essa apre sull’ignoto.
Oh nulla, prima del sole.
Nascita dell’uomo’.

Anche Heidegger pensa che l’essere sia l’altra faccia del nulla ritenendo
l’uomo colpevole nel suo fondamento in quanto essere il nullo fondamento
di una nullità (Heidegger, 1971); l’essere e il nulla coincidono a questo
livello originario, così come l’assoluta individualità e l’universalità assoluta
coincidono nella ‘monade’ dell’esperienza metafisica, che non può essere
‘toccata’ da alcuna parola. Le parole sono significanti che possono denotare
certi significati ma non la significatività stessa che, come abbiamo detto, è
più originaria e posta al di là dell’opposizione di significato e significante
(Zolla, 2016).
È il significato che fa scorgere la cosa e la trae dal nulla attingendo alla
significatività insita nell’essere gettato; l’Esserci è, cioè significa, e le cose
prendono vita e così ‘sono’ a loro volta e tutto ciò che si situa a un livello
minore dell’essere è in proporzione irreale.

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Conflitto di interessi: l’autore dichiara che non vi sono potenziali conflitti di interessi.
Approvazione etica e consenso a partecipare: non necessario.
Ricevuto: 13 settembre 2022.
Accettato: 28 dicembre 2022.
Nota dell’editore: tutte le affermazioni espresse in questo articolo sono esclusivamente quelle degli autori
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Ricerca Psicoanalitica 2023; XXXIV:725
doi:10.4081/rp.2023.725
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